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La democrazia in Italia corre un rischio: la mancanza di una sinistra credibile. Al referendum sulla giustizia l’Italia civile vota Sì

Gli strepiti della sinistra - e di Elly Schlein più di tutti - con il ritornello dell’“allarme democratico” sono un vero e proprio ricostituente per il governo Meloni, pur attraversato da divisioni profonde su politica estera ed economia. La riforma della giustizia non è un bavaglio ai magistrati, né metterà il Pm sotto il tallone dell’esecutivo. Non è neppure quella riforma storica che vorrebbe far credere Meloni. Durata dei processi, sovraffollamento delle carceri, 48 nuove fattispecie di reato, sono tutti problemi che restano intatti. Il vero rischio per la democrazia è il vuoto pneumatico in cui si agita l’opposizione di sinistra

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La metafora è sicuramente abusata, ma rimane sempre più efficace di tante altre: la democrazia è come il sistema respiratorio. Perché funzioni al meglio servono due polmoni, maggioranza e opposizione. Se uno dei due arranca, ne risentirà tutto il sistema. Nell’Italia di fine 2025, è il polmone sinistro quello gravemente malato, e non si intravvedono all’orizzonte medici in grado di somministrare la terapia giusta e nelle dosi adeguate. Fuor di metafora, la democrazia in Italia non corre rischi o almeno non ne corre più di altre democrazie dal momento che tutte devono affrontare le mareggiate dell’autocrazia e del populismo che arrivano da Oriente e Occidente.

La riforma della giustizia – più correttamente l’avrei battezzata “definizione delle funzioni e dei ruoli nella magistratura” – con la separazione delle carriere non ha niente di sovversivo. Si muove nel solco della Costituzione (art.111 riformato) e completa un processo di riforma avviato nel 1988 dal ministro socialista Giuliano Vassalli, medaglia d’oro della Resistenza e d’argento per meriti civili, riforma che per prima mise su un piede di parità i ruoli di accusa e difesa.

Era il famoso processo accusatorio, quello nato con la Costituzione americana del 1776. Un riequilibrio dei ruoli in un meccanismo processuale fino ad allora sbilanciato dal lato dell’accusa la quale poteva procedere per via indiziaria in assenza di prove concrete. Un vero insulto al sistema delle garanzie che venivano di fatto negate all’imputato: un abominio in un Paese che voglia dirsi democratico. Per capirsi, è la condizione in cui si trova oggi l’Ungheria di Viktor Orbán.

La reazione delle opposizioni di sinistra alla riforma della giustizia possono tranquillamente entrare nel manuale di “come non si fa opposizione” o del manuale “come non si torna al governo di un Paese”. Schlein e Conte hanno reagito con una valanga di slogan senza mai fornire argomentazioni per agganciare la maggioranza a un confronto dialettico sui punti controversi della riforma. Per fare un esempio: la nascita di due Csm, uno per i Pm e l’altro per il ruolo giudicante, rischia obiettivamente di rafforzare il principio dell’autodachia, cioè quel particolare istituto per cui ciascuno giudica i suoi in casa propria con la conseguenza che saranno sempre più rare le censure sull’operato di un Pm o di un giudice.

Ecco, dalla sinistra non sono mai venute obiezioni argomentate tali da indurre il ministro Nordio a un rapporto dialettico in Parlamento. Lanciare l’allarme democratico è un’autodenuncia sul vuoto di idee in cui la sinistra sopravvive sempre più a stento. Un vuoto, va detto, da cui viene talvolta attratta anche la destra. È un lavoro penoso quello del vostro cronista quando scorre le agenzie con le dichiarazioni di politici su singoli episodi.

Un esempio concreto: ragazzotti di Gioventù nazionale, movimento giovanile di Fratelli d’Italia, intonano inni fascisti uscendo da una sezione a Parma. Come si reagisce da sinistra? “Che cosa dice Meloni?”, domanda sciocca nella sua provocatorietà. Alla sinistra viene da chiedere: qualcuno ha pensato di presentare un esposto al Tribunale per chiedere di verificare se sia stata violata la legge Scelba sull’apologia di fascismo? Nessun esposto, statene certi. L’episodio è servito per la trita polemica quotidiana, un regalo niente male al governo che così evita di rispondere su questioni molto concrete come il costo della vita o i salari da fame.

Altro esempio, su un altro versante: le manifestazioni pro-Pal con annesse le violenze di infiltrati ma anche di qualche manifestante più di altri esagitato. Da destra partono le consuete bordate e la più stupida delle domande: “Che cosa dicono Schlein e Conte?”. Niente. Il cronista chiede alla maggioranza: qualcuno ha pensato di rivolgersi al Tribunale di Torino per denunciare, in base alla legge Mancino del 1983, comportamenti antisemiti da parte dei manifestanti? Certamente no. Meglio sfruttare quegli episodi per intessere qualche giorno di polemiche. La morale è scritta, fa tristezza ma è così: ci sono leggi votate dagli stessi parlamentari che incrociano la spada, e gli stessi parlamentari non sanno che farsene.

È l’Italia intera che viene costretta a una quotidiana fuga dalla realtà. Vi è costretta da una politica che ha scelto di vivere in una bolla mediatica, lontana dalla concretezza dei problemi per la cui soluzione non ci sono ricette miracolose. Meglio occuparsi di altro, polemizzare sui pro-Pal o sui canti fascisti.

È l’Italia senza più i partiti palestre di democrazia, con le loro correnti interne, con i limiti e le brutture che tutti conoscevamo ma che tutti accettavamo come prezzo da pagare per conservare la democrazia che è un luogo di illibati ideali. Quando i partiti avevano ancora un ruolo decisivo nella vita pubblica, non erano ancora comitati elettorali come oggi, ma luoghi in cui la discussione era viva e accesa, con tanto di maggioranze e minoranze interne. La dialettica politica era autentica e nessuno correva il rischio – tranne in rari casi – di essere scomunicato.

Se Berlinguer sosteneva di sentirsi più al sicuro sotto l’ombrello della Nato, non partiva la raffica di agenzie – come oggi succede se parla un leader – per osannare le parole del segretario. Capitava invece di leggere le riserve di Ingrao o le perplessità di Pajetta. Provate a leggere una critica a Meloni o a Tajani.

Se vogliamo restare sul tema della giustizia, dal lato dell’ordine pubblico, si può ricordare che nel maggio scorso è caduto il 50/mo anniversario della “legge Reale”, dal nome del ministro della Giustizia, il repubblicano Oronzo Reale, partigiano e antifascista della prima ora. Quella legge vietava il travisamento dei partecipanti a una manifestazione, vietava l’uso di caschi o di altri strumenti per travisare la propria persona e conferiva alla polizia la facoltà di usare la forza in determinate circostanze.

Il PCI votò contro la legge. Quando, due anni dopo, la Consulta autorizzò il referendum abrogativo promosso da Pannella e da formazioni di estrema sinistra, il PCI, trascinato da Ugo Pecchioli, responsabile per la sicurezza e la politica interna, scelse il No all’abrogazione. Chissà se qualcuno avrà ricordato a Elly Schlein che cosa significava essere di sinistra nel 1978?

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