“E’ necessario reintrodurre il finanziamento pubblico ai partiti, perché i cittadini devono sapere quale nodo da sciogliere sta dietro il finanziamento: bisogna garantire alle forze politiche l’esercizio delle loro funzioni democratiche”. Non è la provocazione di un nostalgico dei tempi d’oro della Prima Repubblica a parlare, ma il capogruppo dei Cinque Stelle al Senato Stefano Patuanelli, ex ministro della Repubblica e finora interprete della più rigorosa ortodossia grillina. Una svolta copernicana affidata alle colonne del Corriere della Sera, che fa cadere anche l’ultimo tabù dell’originaria purezza anti-casta. Certo, dall’aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno al volere il ritorno del finanziamento pubblico ai partiti il passo è enorme, e rappresenta l’autosconfessione di una narrazione populista che ha segnato per decenni il dibattito politico. Anche se Patuanelli si dice conscio che le sue parole avranno un “effetto dirompente” e che per questo probabilmente sarà insultato, è difficile pensare che la sua uscita non sia stata concordata con i vertici del Movimento. Peraltro, col nuovo corso di Conte, e a causa delle casse vuote per gli insuccessi elettorali, il grillismo di lotta e di governo aveva già fatto votare ai suoi iscritti il sì al 2 per mille.
Oggi perfino i Cinque Stelle scoprono dunque che il problema del finanziamento dei partiti – e quindi della democrazia – esiste, anche perché dopo l’eliminazione di quello pubblico la magistratura ha criminalizzato anche quello privato (vedi il caso della Fondazione Open), entrando così in un vicolo cieco, perché la storia ha dimostrato che non esiste democrazia senza partiti. Ma alla classe politica va ricordato il vecchio proverbio secondo cui chi è causa del suo mal pianga sé stesso: l’abolizione del finanziamento pubblico fu infatti voluta nel 2013 dal governo Letta, ma campeggiava anche nel programma elettorale di Forza Italia, e quando il premier nel discorso d’insediamento scandì che “tutte le leggi sui rimborsi elettorali introdotte dal 1994 ad oggi sono state ipocrite e fallimentari, non rimborsi ma finanziamento mascherato” riscosse il plauso generale. E per molti anni è rimasto il sacro terrore di affermare che forse quell’abolizione tout court fu un grave errore: Ma, come disse al Senato l’ex tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, nelle vesti di grillo parlante di fronte a una classe politica prona al populismo, la domanda da porsi era se la democrazia fosse da considerarsi ancora un valore o fosse diventata un peso per gli italiani.
Sposetti puntò il dito contro Letta, reo di aver scritto un decreto “sotto la spinta dell’antipolitica, della demagogia e del qualunquismo”, che non vanno accarezzati, ma combattuti “con più buona politica”. Un j’accuse accompagnato da una considerazione che si sarebbe poi rivelata anche una profezia: il finanziamento esclusivamente privato, per chi lo eroga, equivale a contrarre un mutuo sui valori fondanti, sulle strategie politiche, sulle idee di un Paese, e il partito in questo caso diventa solo formalmente proprietario delle proprie dinamiche, perché il finanziatore-padrone pretenderà poi la rata del mutuo e gli interessi con tasso altissimo. Ergo: il finanziamento pubblico è garanzia dell’indipendenza dei partiti dagli interessi economici dei più forti, quindi “non si può cedere al populismo e confondere il costo della politica con il costo della democrazia, e la strada maestra indicata era il richiamo alla lezione di Sturzo, il leader del popolarismo liberale: occorre che i partiti siano legalmente riconoscibili e in grado di assumere, anche di fronte alla legge, le proprie responsabilità.
Sposetti, infine, mise in campo la sua esperienza di amministratore di partito: c’è una legge che impone giustamente a un partito di fare un congresso. Chi ha scritto il decreto ha una vaga idea di quanto costa organizzarlo? O sarà delegato a partecipare solo chi potrà permettersi di pagare le spese, determinando così ancora una volta la possibilità di accesso alla vita politica solo per censo? Domande che rimasero senza risposta nel silenzio dell’aula, rotto solo dalle sguaiate invettive dei grillini. Che ora, ohibò, ci hanno ripensato.