A Bruxelles la situazione è ancora ferma al settembre 2020, cioè alla proposta di un nuovo patto sull’immigrazione che tentava di superare il regolamento di Dublino. Roma è costretta, come Paese di primo approdo, a identificare e trattenere sul suo territorio i richiedenti asilo
I flussi verso l’Italia sono ai massimi dalla crisi dei migranti del 2015 (ieri si è superata quota 20 mila), ma fonti della Commissione europea hanno già fatto sapere che nel prossimo Consiglio europeo non sono previste decisioni operative. A livello comunitario, la situazione è ancora ferma al settembre 2020, cioè alla proposta di un nuovo patto sull’immigrazione – rimasto finora inattuato – che tentava superare l’anacronistico regolamento di Dublino.
Il meccanismo non funziona
L’Italia resta dunque costretta, come Paese di primo approdo, a identificare e trattenere sul suo territorio i richiedenti asilo, perché il meccanismo funzionante di equa ripartizione dei migranti fra i 27 Stati dell’Unione non è mai scattato, e nonostante le decine di migliaia di salvataggi operati in mare, finisce regolarmente sotto accusa. Ma sul banco degli imputati dovrebbe esserci proprio l’Europa: il controllo dei flussi migratori è stato infatti fallimentare, e l’immigrazione da problema italiano non è mai diventata una questione europea, perché lo iato tra impegni sottoscritti e attuazione pratica è sempre rimasto enorme. La Commissione non è mai stata infatti in grado di indirizzare gli Stati membri verso una politica migratoria comune, mettendo così in discussione sia la validità di Schengen, sia la realizzazione del tanto vagheggiato “sistema comune di asilo europeo”. Ma l’Europa non può più rimandare la definizione di una linea univoca e seria sul tema dell’immigrazione, non può isolare l’Italia, non può pensare che le tragedie consumate nel Mediterraneo non riguardino Bruxelles o Berlino o Parigi. Nei suoi rapporti, l’Ispi ha previsto che quella migratoria resterà una delle grandi questioni irrisolte del progetto d’integrazione europea per molto tempo ancora. Per i vertici comunitari, infatti, la gestione dei confini resta una prerogativa nazionale, e quindi – continuando a prevalere il sistema intergovernativo – la risposta alle crisi non può che basarsi sul beffardo e aleatorio criterio della volontarietà.
Pesa la mancanza di meccanismi di compensazione
Ogni volta che i flussi migratori dall’esterno dello spazio Schengen crescono, e in assenza di meccanismi di compensazione vincolanti che consentano di alleggerire la pressione sugli Stati di frontiera, cresce parallelamente la tendenza ad agevolare il transito dei migranti irregolari verso i Paesi confinanti (i cosiddetti movimenti secondari), aprendo così la strada a tensioni e contenziosi come quello in atto tra Italia, Francia e Germania sui cosiddetti dublinanti che saremmo obbligati a riprenderci. Il paradosso è che la Commissione da una parte ci chiede di rafforzare il controllo delle frontiere esterne, ma dall’altra, in caso di respingimenti, ci bacchetta perché negare una potenziale richiesta d’asilo è vietato dalle convenzioni internazionali. Si va avanti così da anni, mentre l’Unione non si è neppure mai sobbarcata l’onere di intervenire sulla questione dei rimpatri: nel 2015 era stato lanciato il Trust Fund per l’Africa come strumento finanziario per avere la cooperazione dei Paesi africani nel controllo dei transiti irregolari sul proprio territorio, ma i risultati sono stati del tutto insoddisfacenti.
L’Unione Europea, insomma, appare ancora oggi del tutto impreparata alla sfida di governare i flussi migratori in maniera coordinata, e i Paesi in prima linea, in particolare l’Italia, si ritrovano ancora una volta da soli, stretti tra le pressioni migratorie irregolari ai confini orientali e meridionali dell’Unione e i partner comunitari che chiedono loro di agire da cani da guardia, pur criticandone strumentalmente azioni e metodi. Un cortocircuito che va interrotto prima che sia troppo tardi.