Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea (Bce) ha aumentato di altri 25 punti base i tre tassi di interesse di riferimento, che ora sono arrivati ai massimi da maggio 2001. Questo significa che i tassi sulle operazioni di rifinanziamento principali, su quelle di rifinanziamento marginale e sui depositi nella Bce saranno aumentati rispettivamente del 4,25%, 4,50% e 3,75% dal prossimo 2 agosto. Prosegue dunque la politica monetaria ispirata dai falchi, come conferma plasticamente il comunicato che ha annunciato la nuova stretta: “Gli aumenti dei tassi di interesse già operati in passato continuano a trasmettersi con vigore: le condizioni di finanziamento si sono inasprite nuovamente e frenano in misura crescente la domanda, che rappresenta un fattore importante per riportare l’inflazione all’obiettivo”. Inutile girarci intorno: l’aumento dei tassi di interesse è una stangata per chi ha già un mutuo a tasso variabile e per famiglie e imprese che si accingono a chiedere un prestito.
La dottrina Lagarde, insomma, si sta rivelando perfino peggiore delle previsioni. Un noto economista a dicembre aveva scritto: “L’anno che verrà si preannuncia davvero complicato: contro inflazione e recessione le imprese e le famiglie italiane avranno sempre più bisogno di soldi, ma le banche ne daranno di meno e li faranno pagare di più”. Un mix esplosivo, insomma, anche perché il governo, per tenere in ordine il bilancio, ha necessariamente chiuso il rubinetto degli aiuti a pioggia, mentre la Bce ha continuato imperterrita nel suo percorso di stretta monetaria, con danni evidenti a un’economia reduce da una lunga crisi dovuta a Covid e guerra in Ucraina. Del resto la Bce, alzando i tassi in chiave anti-inflazione si era disallineata dalle politiche di bilancio nazionali già quando erano ancora costrette a muoversi con manovre redistributive per scongiurare recessione e conflitti sociali.
Ma le responsabilità non sono attribuibili solo a Lagarde: all’inizio della crisi del gas, primo detonatore della fiammata inflazionistica in Europa, fu la Commissione Ue a muoversi con drammatico ritardo, per obbedire ai desiderata tedeschi: bisognava infatti intervenire subito per bloccare la spirale speculativa sul mercato di Amsterdam, mentre si perse tempo a discutere se varare un price cap solo per il gas destinato all’elettricità e di un Sure 2.0 per attenuare i rischi di disoccupazione. Mancò insomma un cambio di passo: alle misure urgenti per ridurre i consumi energetici, e a quelle dei governi nazionali per sostenere famiglie e imprese, si sarebbe dovuto aggiungere un piano di investimenti modello Recovery per finanziare l’autonomia energetica. Lo chiesero a gran voce quindici Paesi dell’Unione, ma la Germania si mise alla testa del fronte del no, insieme a Norvegia e Olanda, ossia i maggiori beneficiari di quella crisi epocale.
Il continuo aumento dei tassi d’interesse ha in parte arginato la corsa dei prezzi, ma è stato soprattutto un freno per un’economia comunitaria già in difficoltà. Hanno vinto i falchi, dunque, senza tenere conto che quella europea è stata un’inflazione indotta, dovuta alla guerra, all’aumento del prezzo dell’energia e alla scarsità di materie prime, e si sta concretizzando il paventato rischio di provocare ulteriori difficoltà a imprese e famiglie senza risolvere il problema. “Continuiamo a non comprendere questa continua rincorsa a combattere l’inflazione con lo strumento dei tassi – disse qualche mese fa il presidente di Confindustria Bonomi: in un momento in cui dobbiamo sostenere gli investimenti, la rincorsa ad aumentare i tassi è deleteria soprattutto con una politica di annunci”. Invece la Bce ha continuato inflessibilmente a seguire l’impostazione tedesca: la Germania dopo un secolo non ha ancora superato lo choc storico del disastro di Weimar, ma Draghi con la sua autorevolezza era riuscito a imporre decisioni coraggiose anche in contrasto con gli interessi di Berlino, a cui la linea Lagarde si è sempre, in tutta evidenza, piegata. In questo modo, l’Europa non fa politica industriale per l’Europa, ma sono di fatto i tedeschi che decidono per tutta Europa.