La politica non è mai davvero uscita dal sistema bancario. Quello che succede intorno alla Banca Popolare di Milano nel ruolo di preda, e intorno a UniCredit nel ruolo di predatore, racconta di un amore mai finito della politica per lo sportello. È indimenticabile lo stupore fanciullesco di Piero Fassino, all’inizio del secolo, allorché gli annunciarono che Unipol era sul punto di acquisire la Banca nazionale del Lavoro. “Abbiamo una banca”, esclamò, non si capì se più incredulo o eccitato. Avere una banca è diventato il sogno di ogni leader politico da quando, all’inizio degli anni Novanta, l’Iri di Romano Prodi avviò la nazionalizzazione delle tre Bin (Banca di interesse nazionale, erano Credito italiano, Banca di Roma, Banca Commerciale Italiana). Oggi la tentazione di avere una banca è riaffiorata, come un fiume carsico, e ha contagiato Matteo Salvini. Il leader della Lega, si sa, è l’interprete inossidabile del sovranismo più ortodosso, di tratti della difesa dei confini o, appunto, dell’italianità di una banca. La Bpm, poi, ha il cuore e l’anima in quel di Milano e nella Lombardia, terra sempre più avara di voti e di successi per quello che un tempo era il Carroccio.
È successo che André Orcel, amministratore delegato di UniCredit, ha tentato senza successo di scalare la tedesca Commerzbank, un tempo simbolo di solidità e saggia amministrazione e oggi in pesante affanno. Il cancelliere Olaf Scholz ha alzato le barricate considerando ostile la mossa del banchiere Italo-francese. Da Roma sono partiti immediatamente frizzi e lazzi all’indirizzo di Berlino e verso quanti hanno sempre portato quel Paese a esempio di europeismo disinteressato. Passano poche settimane e Orcel guarda in casa e trova nella Bpm, nella sua radicata diffusione in Lombardia e soprattutto nella sua espansione come banca di investimento, il target giusto per UniCredit.
Una banca italiana, già campione europeo, vuole acquisire un’altra banca italiana per consolidare la sua posizione nel settore del risparmio e del retail. Tutto giusto, si direbbe. La politica è di tutt’altro avviso e di tutt’altro avviso è il commander in chief della Bpm, Viola. Più lesto di tutti si muove Matteo Salvini, alfiere dell’italianità ultraortodossa. Al grido di “tutelare il risparmio degli italiani”, il leader leghista mette il pollice verso alle intenzioni di Orcel. Ora si dà il caso che quanto a purezza di italianità, tanto UniCredit quanto Banca Popolare di Milano non hanno tutte le carte in regola. Il maggior azionista di UniCredit è il fondo americano di investimenti BlackRock, che ha in portafoglio il 7% delle azioni. Lo stesso fondo controlla il 5,04% di Bpm. I tre quarti del capitale di UniCredit sono di investitori istituzionali. La competizione fra le due banche si svolge sul terreno non della maggiore ma della minore italianità fra di esse.
Tutto accade in una cornice abbastanza surreale, Ha parlato Salvini, ha parlato, per contrapporsi a lui, Tajani e tace, al momento, la presidente Meloni. Per la verità, più che replica a Salvini, Tajani si è limitato a richiamare la procedura istituzionale chiedendo a tutti di rimettersi alla valutazione che farà l’Autorita di Vigilanza europea (l’operazione è di dimensioni rilevanti pertanto oltre al vigilante nazionale si pronuncerà anche il corrispettivo europeo).
In attesa di una pronuncia degli organismi titolati, Bpm prova ad alzare le difese. L’Ad, Giuseppe Castagna, lo fa toccando quelle corde per le quali spera di mobilitare il sindacato. Così ha preannunciato che nel caso di una fusione scatteranno sinergie dal lato dei costi che porteranno ad almeno 10 mila esuberi. Antonio Patuelli, presidente dell’Associazione bancaria italiana (ABI) evita di entrare in tackle sulla vicenda. Anzi, con l’aria di chi proprio non vuole saperne dice due cose all’apparenza ovvie ma di grande impatto: “Nelle operazioni di mercato valgono due fattori: i fattori strettamente di mercato, che sono quelli economici, e le regole, con la vigilanza delle Autorità”. Il sottinteso è di una serafica ferocia: che c’entra la politica con UniCredit e Bpm?
Più netto di Patuelli, non avendo nessuna carica istituzionale, è l’economista Salvatore Rossi, già direttore generale di Bankitalia dal 2013 al 2019. Rossi non trova “alcuna motivazione per invocare il Golden power”, di più: egli ritiene che sia “inattuabile, ma nel caso spetterà al governo giustificarsi davanti alle autorità europee”. Il solo evocarlo sembra a Rossi che sia “un proclama di pura propaganda”. La sua spiegazione è che il Golden Power, applicabile in via teorica, è stato pensato per i settori della difesa e sicurezza nazionale. “È stato creato per proteggere aziende strategiche da acquisizioni estere che possano minacciare il Paese. Adesso, però, sta diventando uno strumento di politica industriale. E in questo caso non c’è alcuna minaccia alla sicurezza nazionale”.
Si tratta, insomma, di prendere atto di volontà – di acquisire e di non essere acquisiti – che si sono manifestate attraverso gli strumenti del mercato. E sono le autorità che vigilano sul mercato gli unici giudici autorizzati a misurarne l’adesione alle regole del mercato.
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