Il mondo come vocazione e le persone come orizzonte d’attesa, per una sinistra “più europea, in un percorso continuo di lotta alle disuguaglianze e di promozione della crescita”, che sappia imporsi come “identità definita” e non come “alterità sfocata” sulla scena politica.
Il senatore del Pd Dario Parrini, vicepresidente della commissione Affari costituzionali, in una lunga intervista al quotidiano digitale Il Difforme, comincia da lontano della sua carriera politica e giunge al presente mobile dell’era Meloni, per raccontare lo stato di salute del partito d’opposizione.
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“Essere sindaco mi ha inculcato l’idea di essere concreti sempre”, afferma adducendo l’esperienza decennale di primo cittadino di Vinci. “Oggi – prosegue – incarnare la forza d’opposizione comporta essere al centro di una battaglia decisiva per impedire che il Paese compia un colossale passo indietro”.
Parrini ha il volto pragmatico, acuto e un po’ torvo della sinistra italiana. “Legiferare è una questione seria, ma attualmente il Parlamento versa in una condizione di subalternità grave al governo”. “Non ho paura di Giorgia Meloni, solo un po’ del mare”, scherza all’inizio dell’intervista. E dal mare è recentemente rientrato nei corridoi di Palazzo Madama.
Senatore Parrini, lei è stato sindaco di Vinci, poi deputato e infine senatore con la presidenza prima e la vicepresidenza poi della commissione Affari costituzionali. Cosa ha significato modulare linguaggio, agenda e obiettivi nel passaggio da un campo politico (di incontro e scontro) all’altro?
“Ha significato misurarsi con la grande differenza che passa fra l’amministrare localmente e il fare politica a livello nazionale. È la grandissima differenza che corre fra una carica esecutiva monocratica e una carica assembleare. Soprattutto dal 1993, con l’introduzione dell’elezione diretta, il sindaco è il vertice dell’amministrazione comunale ed è investito di notevoli poteri e altrettante responsabilità”.
“È in definitiva chiamato a assumere nel corso di una giornata almeno dieci decisioni che si riveleranno giuste o sbagliate nel giro di quarantotto ore. È il sale e il bello dell’amministrare. Nella politica parlamentare i tempi sono molto più dilatati. Non sei al vertice, ma uno fra duecento. Ti occupi di problemi che hanno una scala più grande e i cui effetti sono proporzionalmente molto grandi, ma in maniera enormemente più differita”.
Le pesa essere uno fra duecento?
“No. Legiferare è una questione seria. È giusto che a sottoscriverle siano organismi rappresentativi della nazione. E per essere rappresentativi di un Paese, le assemblee devono avere una dimensione minima. Mi pesa piuttosto altro dell’attività parlamentare, ossia la condizione di subalternità grave al governo in cui versa il Parlamento italiano che si è aggravata nell’ultimo periodo“.
“La prassi del monocameralismo alternato non è venuta meno con il venir meno dell’emergenza Covid, ma è disdicevolmente diventata regola non scritta del nostro bicameralismo. E abbiamo assistito al paradosso di un governo che pur avendo la più grande maggioranza della Seconda Repubblica con il 60% dei seggi, fa un ricorso record ai decreti legge e ai voti di fiducia: ben quattro al mese. Il Parlamento converte solo decreti del governo. Non va assolutamente bene: è necessaria una riforma istituzionale che ponga fine a questo bistrattamento del Parlamento”.
Passando all’agenda del Pd, qual è la questione che sente come più imminente e calda cui sta lavorando in questo momento?
“In questo momento come vicepresidente della commissione Affari costituzionali sono molto impegnato nel contrastare il ddl sull’autonomia differenziata che, a mio giudizio, è stato concepito da Calderoli in modo tale da essere un pericolo per l’unità nazionale. Sul piano generale, i temi sono l’attuazione del Pnrr, ricca di pasticci e ritardi, e la battaglia che per fortuna vede unite tutte le opposizioni, salvo Italia Viva, per l’introduzione del salario minimo”.
Per l’appunto. In Italia è possibile fotografare uno sfruttamento a colori: dal lavoro nero al, soprattutto, lavoro grigio. La pdl sul salario minimo rappresenta in questo senso un passo dirimente? Saprà rispondere a coloro, soprattutto giovani, che a causa di una mancata cultura di riconoscimento del lavoro, non riescono a progettare il domani?
“La pdl ha il pregio di estendersi ai rapporti autonomi e parasubordinati. Quindi si pone il problema che lei solleva. Sta di fatto, ammetto, che nel fissare il livello del salario orario, bisogna individuare una soglia che non sia una spinta al sommerso. Noi valutiamo che nove euro rappresentino una cifra sostenibile”.
Dove le argomentazioni della destra sono fallaci?
“Contrapporre il salario minimo alla riduzione del cuneo fiscale: sono platee diverse. Pensare che si possa eliminare la piaga degli sfruttati incentivando la contrattazione: la contrattazione va incentivata, ma da sola – è dimostrato – non può farcela e ha bisogno del supporto di una legge sul salario minimo”.
Parlando di giovani e politica, è non trascurabile l’adesione dei giovanissimi alle fazioni politiche estreme. Come se lo spiega? Come recuperare dialogo e fiducia con i giovani?
“I giovani tanto più sentono la politica convenzionale lontana dai loro problemi e dalle loro speranze, tanto più sono indotti a cercare soddisfazioni in parole d’ordine oltranziste. Dovremmo avere più cura per i giovani, dall’inserimento lavorativo al diritto allo studio. Serve una quantità maggiore di coraggio”.
Qual è il futuro prossimo del partito?
“Un futuro di lotta per i diritti sociali e civili dei cittadini e di protagonismo nella costruzione di una coalizione che possa credibilmente contrapporsi alla destra nelle prossime elezioni politiche. Il sentimento di sconfitta non suscita partecipazione”.
Qual è il futuro prossimo della sinistra?
“Un futuro più europeo di lotta alle disuguaglianze e di promozione della crescita. Come? Favorendo chi investe e mettendo chi è più debole in condizione di recuperare lo svantaggio. Inoltre, occorre una presa di coscienza degli Stati: a nessuno dei grandi problemi che assillano le nostre democrazie si può dare una risposta solo nazionale. O i paesi europei aumentano e approfondiscono l’integrazione o altrimenti saranno marginali sulla scena politica mondiale. L’Italia può evitare una sorte del genere. Bisogna che chi la governa deponga ogni ambizione sovranista. Se la strada tracciata resta il sovranismo, alla fine ci sarà l’emarginazione”.
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