È ancora una volta lo spettro del veto americano a far saltare un’intesa al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Martedì sera, gli Stati Uniti hanno bloccato con un colpo secco la risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco immediato a Gaza. Quattordici i voti favorevoli. Nessun astenuto. Ma è bastato il “no” di Washington, uno dei cinque membri permanenti con potere di veto, per affossare tutto.
A darne l’annuncio ufficiale è stata l’ambasciatrice Usa all’Onu, Dorothy Shea, che ha motivato così la decisione americana: “Per poter andare avanti, Hamas e altri gruppi terroristici non devono avere un futuro a Gaza”. Nel suo intervento, Shea ha accusato le Nazioni Unite di non aver neanche definito Hamas come organizzazione terroristica, sottolineando che la risoluzione “non condanna Hamas, non le chiede di deporre le armi, né di lasciare la Striscia”.
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La diplomatica ha ricordato che “Hamas ha rifiutato varie proposte di cessate il fuoco, incluso un piano presentato lo scorso weekend che avrebbe potuto portare alla liberazione dei restanti 58 ostaggi”. E ha rilanciato: “Il Consiglio di Sicurezza non può premiare l’intransigenza di chi ha iniziato questo brutale conflitto il 7 ottobre”.
Una linea dura, quella americana, che ha suscitato forti reazioni.
Hamas: “Veto arrogante, via libera al genocidio”
Dura la replica del movimento islamista palestinese. In una nota, Hamas ha bollato il veto come “arrogante” e “complice” dei crimini israeliani nella Striscia. “Questa posizione – accusa il gruppo – offre carta bianca a Netanyahu per continuare la sua brutale guerra di sterminio contro civili innocenti”.
Hamas denuncia “l’ipocrisia dell’Occidente” e chiede alla comunità internazionale “misure urgenti per fermare il massacro e chiamare i responsabili a risponderne davanti alla giustizia”.
Norvegia: “Grave occasione persa”
Più istituzionale, ma non meno netta, la posizione di Oslo. “Profondo rammarico” è stato espresso dalla Norvegia per il fallimento della risoluzione che chiedeva anche la revoca delle restrizioni agli aiuti umanitari per Gaza. “La sofferenza deve finire”, ha dichiarato il governo norvegese.
Washington Post: “Non siamo stati chiari su Gaza”
Nel mezzo della bufera mediorientale, anche i media Usa si interrogano sul proprio ruolo. Il Washington Post ha ammesso un errore: ha cancellato un post su X e modificato un articolo sugli spari a una folla a Gaza. Il pezzo inizialmente attribuiva senza chiarimenti la responsabilità a Israele, basandosi su fonti di Hamas. “Non rispettava i nostri standard di correttezza”, ha ammesso il giornale, sottolineando di non aver dato sufficiente rilievo alla smentita israeliana.
Columbia University nel mirino del governo Usa
Nel frattempo, un’altra scossa scuote gli Stati Uniti: il Dipartimento dell’Istruzione ha accusato la Columbia University di non aver protetto gli studenti ebrei dalle molestie durante le proteste per Gaza. L’istituto è a rischio perdita di fondi federali. Un attacco che arriva nel contesto della campagna dell’amministrazione Trump contro le università considerate troppo “liberal”.
Dunque gli Stati Uniti restano fermi nella loro alleanza con Israele, anche a costo di spaccare l’Onu. E mentre Gaza continua a bruciare, la diplomazia internazionale sembra sempre più un gioco di veti.
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