Il presidente degli Stati Uniti prende posizione sul commercio di pistole e fucili: «Cosa deve succedere ancora?». Ma il dibattito è molto più complesso e radicato nella storia americana
A poche ore dalla strage di Uvalde in Texas che ha visto un ragazzo di 18 anni, Salvador Ramos, uccidere 19 bambini e due insegnanti, arrivano i messaggi di cordoglio.
Il presidente Joe Biden usa parole dure verso il delicato dibattito che si apre periodicamente in Usa sul libero commercio di armi: «Sono stanco, dobbiamo agire. L’idea che un 18enne possa entrare in un negozio e acquistare un fucile è sbagliata – dice il presidente a fianco della moglie Jill – Perché queste sparatorie non accadono in altre parti del mondo? Perché vogliamo vivere con queste carneficine? E’ il momento di trasformare il dolore in azione e agire sulle armi».
Il ricordo di Biden va poi all’altra grande tragedia, quella di Sandy Hook del 2012, vissuta in prima persona durante gli anni della vicepresidenza Obama: «Speravo quando sono diventato presidente di non dover fare questo ancora una volta. Perché continuiamo a consentire che questo accada? Per l’amor del cielo dov’è la nostra spina dorsale?».
Anche la vicepresidente Kamala Harris, da sempre schierata contro il commercio di armi, ha porto il suo messaggio di cordoglio alle vittime e alle loro famiglie: «Quando è troppo è troppo, bisogna avere il coraggio di agire. Preghiamo per voi, stiamo con voi».
Le polemiche sul governatore Abbott
Dopo la sparatoria arrivano critiche verso il governatore repubblicano John Abbott, sotto accusa per aver fatto firmare nello scorso anno una legge che consente il facile possesso di armi a chiunque abbia più di 21 anni.
Abbott, che prima degli accadimenti di Uvalde era in lizza per candidarsi alle presidenziali 2024, ha mandato il suo messaggio di sostegno e cordoglio alla cittadina colpita dalla tragedia ma proprio in queste ore torna a galla un vecchio tweet del politico in cui esortava i texani a comprare più pistole: «Sono imbarazzato. Il Texas è solo al secondo posto per gli acquisti di nuove armi dietro alla California. Texani aumentiamo la velocità», scriveva nel 2015 sul social. E nel frattempo, aumenta l’attesa per la sua partecipazione a Houston all’assemblea della National Rifle Association, la potente lobby di fucili e pistole americana.
Uvalde riapre la vecchia questione sulle armi da fuoco
La sparatoria alla Robb Elementary School non è che l’ultima tragedia di una lunga lista che porta sulla scena del dibattito pubblico il tema del porto d’armi in Usa. Dopo i continui e ripetuti attacchi da armi da fuoco – solo nel 2022 ce ne sono stati già 212 – l’opinione comune è divisa fra chi, come Biden, Ocasio Cortez e Harris, chiede una maggiore regolamentazione e chi, come Trump e Abbott, si appella al cruciale secondo emendamento della Costituzione americana.
«Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto», recita il testo cardine degli Usa. Di fatto, il possesso di fuoco con il secondo punto costituzionale diventa un “affare di Stato”: la detenzioni di armi per il privato cittadino è giustificata non solo come difesa personale, ma, in sostanza, come tutela per l’intera nazione.
La cultura delle armi è radicata nella società americana, le continue stragi non sono che un esempio di ciò. Quando nel 2018 il giornalista inglese, corrispondente da Chicago per il “Guardian”, Gary Younge scrisse il libro “Un altro giorno di morte in America” ha compiuto un esperimento sociale che fotografa bene la realtà statunitense. Lo scrittore ha scelto una data casuale, il 23 novembre 2013, e tramite una ricerca in archivio ha raccontato le storie di dieci bambini che solamente in quella giornata erano stati uccisi da un’arma da fuoco.
Il modo di vivere a stretto contatto con pistole e fucili è profondo nella società statunitense, tanto che i bambini sono fin da piccoli abituati a esercitazioni per sapersi difendere da eventuali attacchi: una sorta di training a metà strada fra le evacuazioni nostrane per i terremoti e il primo soccorso.
Vivere nel paradosso: più armi ma meno armati
È l’editoriale scritto da Max Fisher e Josh Keller nel 2017 per il New York Times a darci la proporzione vera, in termini numerici, della realtà americana alle prese con le armi da fuoco.
Il pezzo, chiamato “Why Does the U.S. Have So Many Mass Shootings? Research Is Clear: Guns”, è nato dopo la strage di Sutherland Springs di appena due giorni prima ed è un confronto, in termini assoluti, fra la popolazione mondiale e quella americana sulla detenzione di armi.
I giornalisti scrivono che gli americani sul globo sono circa il 4,4% del totale di abitanti, ma detengono il 42% delle armi di tutto il mondo.
La maggiore incidenza di stragi o massacri non può essere solo un problema di salute mentale, come ritengono i sostenitori del secondo emendamento. Le percentuali di malati psichiatrici è troppo bassa per sostenere la frequenza con cui si verificano queste tragedie. Stesso ragionamento vale applicato ai videogame o altri prodotti violenti.
Il problema è insito nella cultura e nella società statunitense. Il tasso di omicidi col colpi di pistola nel 2009 è di 33 persone ogni milione, mentre in Canada e Regno Unito si aggira attorno ai 5 e 0,7 persone per milione – che ricalca la percentuale di possesso di armi. In altre parole: un londinese, secondo gli editorialisti, ha le stesse probabilità di un newyorkese di essere derubato, ma quest’ultimo ha circa 54 volte più probabilità di essere sparato durante una rapina.
Ma c’è, secondo lo studio riportato, un’evidente paradosso: solo un terzo della popolazione Usa detiene un arma, eppure negli Stati Uniti ce ne sono circa 270 milioni. Ci sono sempre meno persone armate, ma ci si equipaggia con maggiore ferocia.