L’Italia nel mirino di Bruxelles che comincia a storcere il naso di fronte a quello che sembra un eccesso di uso del Golden Power per mano del governo. Si riapre quindi il dossier sui cosiddetti poteri speciali che lo Stato può esercitare nei settori strategici al fine di tutelare l’interesse nazionale e quindi intervenire sugli investimenti esteri.
Cos’è il Golden Power
Già nel 2009, i poteri speciali furono oggetto di discussione tra Italia e Unione europea, in riferimento all’allora golden share. Pur riconoscendo “legittimo e difendibile” il fine di salvaguardare gli interessi vitali dello Stato, la Commissione era entrata nel merito ritenendo che il sistema italiano andasse oltre tale obiettivo e dunque violasse la libera circolazione dei capitali.
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Da qui, l’Italia aggiustò il tiro e introdusse il Golden Power, sostituendo le partecipazioni azionarie munite di prerogative speciali con un potere di intervento dello Stato su specifiche operazioni in settori strategici. E con il sintomatico nome di “Norme in materia di poteri speciali sugli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni“.
Insomma, lo Stato può ora esercitare poteri speciali nei confronti di tutte le società che svolgono attività di rilevanza strategica con la possibilità di imporre specifiche condizioni all’acquisto di partecipazioni o porre il veto all’adozione di delibere relative a operazioni straordinarie o di particolare rilevanza, tali da compromettere gli interessi nazionali.
Cercando di aggirare l’ostacolo europeo, però, il governo italiano avrebbe utilizzato il super pulsante del Golden Power in operazioni che non riguardano investimenti extra europei, bensì in operazioni tra imprese europee o addirittura tra imprese italiane. Un’azione che va contro lo scopo del Regolamento degli investimenti esteri dell’Ue che indicherebbe un intervento del governo solo per evitare l’acquisizione di attività a carattere strategico da parte di soggetti esterni all’Unione potenzialmente a rischio, come quelli cinesi, di essere soggetti al controllo governativo.
A Bruxelles quindi hanno rizzato le orecchie notando l’attivismo dello Stato italiano che andrebbe in contrasto proprio con il diritto europeo delle Quattro Libertà su cui è fondato il Mercato Unico – delle merci, delle persone, di stabilimento e di prestazione dei servizi, dei capitali. Una vera e propria collisione tra le originarie intenzioni del legislatore europeo e l’applicazione nazionale.
Perché se ne parla
Quindi, l’Italia dal dito si è preso tutto il braccio. Il campo di applicazione della normativa italiana si è progressivamente esteso a svariati settori, dalle comunicazioni all’energia, al digitale e all’alimentare e anche al finanziario. Un ampliamento che quindi giustificherebbe anche le misure relative ad aggregazioni tra banche a cui si riferiva il Ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che sostiene che “sulla sicurezza nazionale decide lo Stato, non l’Europa“.
Fondamentalmente, la questione è tornata alla ribalta lo scorso 18 aprile quando il Consiglio dei Ministri ha approvato un Dpcm per fissare i paletti all’Ops lanciata da Unicredit per l’acquisizione di Banco Bpm, suscitando l’immediato timore di subire un forte richiamo dall’Europa.
Il rischio di uno scontro con l’Ue
E infatti, l’Unione osserva e si muove con la direzione generale della Concorrenza (DgComp), che ha il potere di entrare nel merito e stabilire se le leggi nazionali rientrino o meno nell’ambito della sicurezza nazionale e se siano proporzionati. Resta dunque il rischio di finire in una procedura di infrazione da parte della Commissione europea, venendo sanzionati.
Allo stesso tempo, se la Commissione finora non era intervenuta è probabilmente dovuto al fatto che l’originario Regolamento è in fase di revisione. Si attende una linea concreta, una riforma che chiarisca come, quando e perché uno stato può intervenire sulle operazioni. In sostanza, un testo, che si prevede, possa prevedere di introdurre l’obbligo per gli Stati membri di dotarsi di meccanismi di controllo degli investimenti extra-Ue, da cui effettivamente sollevare dubbi sui termini di compatibilità con le esistenti normative nazionali.
Ma fin dove può spingersi il Golden Power prima di diventare uno strumento di politica industriale? Piuttosto che di salvaguardia e tutela? Fin dove può spingersi l’intervento del governo e dell’Europa?
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