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Compositore, autore e interprete, Léonard Lasry incarna l’eleganza contemporanea della chanson française. Nato a Parigi nel 1982, pianista fin dall’infanzia, è cresciuto tra musica, moda e arte. La sua carriera, nutrita da un immaginario visivo forte e da un gusto per le melodie senza tempo, lo ha portato a collaborare con figure iconiche come Charlotte Rampling e Sylvie Vartan. Le sue creazioni, sospese tra introspezione e passione, sono un ponte tra la tradizione e la modernità, un dialogo costante tra il suono e l’immagine, tra la grazia e la sincerità emotiva.
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Oggi, Lasry si afferma come uno degli artisti più raffinati della scena francese. Dopo l’album Que savons-nous de nous ? e le collaborazioni con diversi brand, sta partecipando alla creazione di nuovi progetti interessanti. Tra questi, una tournée europea che inizierà ad ottobre 2025. Tra obiettivi raggiunti e sogni ancora da realizzare, l’artista segue un principio che attraversa tutta la sua opera: la bellezza come forma di verità.

Léonard Lasry: “Non esiste l’arte senza sincerità…”
Léonard Lasry, l’attualità di questa fine d’anno è ricca! Tra l’album Que savons-nous de nous ?, l’uscita imminente della cover della canzone di Sylvie Vartan Aimer e la composizione della colonna sonora del film Un balcon à Limoges, Lei è al centro di numerosi progetti. Può parlarci un po’ di questa produzione rigogliosa?
Sì, assolutamente. Tutto è cominciato un po’ meno di un anno fa, mentre stavo promuovendo il mio precedente album, Le grand danger de se plaire. All’epoca, non pensavo ancora a una nuova raccolta, ma le mie numerose collaborazioni, come quelle con Fanny Ardant, Charlotte Rampling e Françoise Fabian, mi hanno dato voglia di riunire questi incontri. Volevo che questo album di duetti avesse la coerenza di un vero disco, raccontando una storia e mettendo in luce brani che la gente conosceva meno. Ho registrato anche degli inediti, in particolare il duetto con Maria de Medeiros, che apre questo lavoro. E, naturalmente, mi serviva una canzone con Sylvie Vartan, che ho sempre amato. Avevamo già collaborato nel 2021 sul suo album Merci pour le regard. Avevo scritto Tout reste à dire come un messaggio ideale che l’artista avrebbe potuto indirizzare al suo pubblico per un eventuale ritiro dalle scene. La nuova versione, che ha ricevuto un’ottima accoglienza, ha acquisito pieno senso quest’anno, al momento della sua tournée di addio. Ho voluto prolungare questa storia con Sylvie con un vinile maxi 45 giri dedicato a questo brano. Ho quindi registrato la mia cover di Aimer, una bellissima canzone di Jean-Loup Dabadie che ho riarrangiato in modo più romantico ed essenziale e che sarà il lato B del disco. Questo brano uscirà con il suo videoclip il 10 ottobre. Inoltre, la colonna sonora del film Un balcon à Limoges di Jérôme Reybaud, che ha avuto un premio al Festival di Locarno in agosto e che è presentato al Festival di Salerno questa settimana.
Scrivere per un monumento della canzone francese come Sylvie Vartan è un traguardo, tanto più che ora ne è fan. Cosa significa per l’artista e per la persona che è?
Lavorare con Sylvie Vartan è stato certamente un momento magico. Ogni apprensione è svanita in fretta. Al primo incontro, Sylvie e suo marito Tony Scotti hanno creato un’atmosfera molto amichevole, quasi familiare. È stato sorprendente, sembrava che ci conoscessimo già. Sono venuti a cena da me e abbiamo subito lavorato al pianoforte in un clima molto caloroso. Anche se sono abituato a dirigere i cantanti in studio, pensavo di lasciare Sylvie tranquilla. Ma in realtà era felice che le dessi delle indicazioni, che vedessimo le canzoni insieme. L’emozione è arrivata poco prima dell’uscita dell’album, quando il brano Merci pour le regard è stato svelato sulle piattaforme e trasmesso in radio. Ho avuto l’impressione di apportare una piccola pietra al suo immenso repertorio. Sono rimasto particolarmente toccato quando Sylvie ha detto che quest’album era uno dei suoi preferiti e che le mie 5 canzoni erano servite da base per costruire il resto del disco. È un grande orgoglio e ciò spiega perché abbiamo avuto voglia di prolungare questa bella storia con il duo Tout reste à dire e adesso con il rifacimento di Aimer.
Lei ha scritto o composto per icone come Charlotte Rampling, Marie France, Sylvie Vartan o Fanny Ardant. Cosa La ispira di più in queste dive, alcune delle quali non sono cantanti di professione?
Sono innanzitutto delle visioni sognate. Quando compongo per queste leggende, il mio punto di partenza è una visione che ho di loro, spesso ispirata dai loro film o dalle loro foto. Anche quando non sono cantanti di professione, la loro voce e il loro fraseggio sono molto potenti. È splendido vedere queste dive, che hanno una forte iconografia e una personalità imponente, appropriarsi delle canzoni. Queste donne di grande carisma hanno un modo di mettersi in scena e una presenza che trascende il loro semplice ruolo. Sono sempre stato affascinato dalle personalità che hanno un tale impatto. Per esempio, quando si vede recitare Catherine Deneuve, anche se incarna un ruolo, l’icona è sempre lì. La sua presenza e la sua voce prendono il sopravvento. Guardate la pellicola 8 donne e un mistero: tutte le attrici cantavano con una presenza particolare, non come cantanti, ma come interpreti che incarnavano la canzone in un modo assolutamente unico. L’idea di farle cantare, di utilizzare questa potenza interpretativa sulla musica, mi ispira enormemente. È questo che crea qualcosa di molto forte, come facevano personalità come Régine, che di base non era una cantante, ma abitava le canzoni con la sua sola personalità.
Léonard, torniamo un po’ indietro nel tempo. Nato a Parigi, Lei ha cominciato a suonare il pianoforte già all’età di 4 anni. In che modo questa precocità ha avuto una ripercussione sull’artista che è diventato? E sul processo di composizione?
Penso che la mia infanzia sia stata segnata da una grande libertà, il che è stato essenziale. I miei genitori mi hanno sempre dato fiducia e mi hanno lasciato lo spazio e il tempo necessari per svilupparmi. Ero un bambino sognatore e tranquillo: leggevo molto, ascoltavo musica classica e, soprattutto, suonavo il piano. Immaginavo di essere Mozart o un compositore di colonne sonore. Questa indipendenza nell’immaginare che le cose fossero possibili è stata la base di tutto. Nell’adolescenza, mi sono buttato sul varietà e sul pop. Verso i 16 anni, ho avuto la rivelazione: volevo scrivere canzoni per altri artisti. È stato un direttore artistico a suggerirmi: “Perché non canti te stesso?”. Allora, ho capito che per creare un repertorio più originale e personale, era più efficace scrivere per me. È così che, verso i 24 anni, poco tempo dopo i miei studi, ho pubblicato il mio primo album, Des illusions. Alla fine, la mia carriera attuale è un mix del mio sogno iniziale e di questa opportunità scoperta lungo il cammino. È molto gratificante vedere queste aspirazioni realizzarsi.

Come ha menzionato, ha lanciato il Suo primo album, Des illusions, nel 2006. Che ricordo conserva di questa prima fase della Sua carriera, all’età di 24 anni?
Conservo un ottimo ricordo e sono contento delle scelte fatte all’epoca. All’inizio, avevo pensato a delle orchestrazioni, ma fortunatamente il progetto non è andato in porto. Ci siamo quindi ricentrati su un album piano-voce, quasi un recital. Fatto interessante, non sono io a suonare il piano su questo album. Ho chiamato un pianista di jazz, che ho visto sul palco con la cantante francese Barbara Carlotti, per dare un colore diverso alle mie composizioni. Il risultato è un suono un po’ più adulto e senza tempo, il che è una buona cosa. Oggi, sono ancora in sintonia con queste prime canzoni che testimoniano i miei esordi. Il fatto di aver optato per quel suono fa sì che io non mi vergogni di questo disco: non è invecchiato male. Anche se la mia musica è diventata più pop in seguito, quel lavoro ha posto delle belle basi.
Come è arrivato il successo? Come ha percepito questo riconoscimento da parte del pubblico, il fatto di essere ascoltato dalla gente?
Il successo è arrivato progressivamente. Ho cominciato a rendermene conto davvero al mio ritorno nel 2017, dopo un periodo in cui ero meno visibile come cantante. Ho pubblicato l’EP Le seul invité, preludio al mio album Avant la première fois, che segnava una nuova maturità con i testi di Élisa Point. L’accoglienza è stata eccellente e molto toccante. L’album ha ricevuto ottime critiche e ha creato un vero e proprio slancio, aprendomi nuove porte. Questo disco, che consideravo più completo dei precedenti, è stata l’amplificazione che aspettavo. Il suo buon riscontro mi ha messo le ali, provandomi che la gente desiderava che io continuassi a cantare. Un segno forte di questa riconoscenza è stata l’edizione speciale per il Giappone nel 2018, un momento indimenticabile.
In quanto artista europeo, cosa significa per Lei aver trovato un riscontro in un continente così lontano?
Ho adorato l’esperienza in Asia. Sapevo che a Tokyo esisteva una cultura raffinata e appassionata per la canzone e il cinema francese. Lì si trovano edizioni e stampe di artisti francesi talvolta sconosciuti da noi. C’è uno spazio, anche se piccolo, ma reale, per la nostra musica. Non è stata una mia iniziativa: un’etichetta discografica giapponese mi ha contattato per delle compilation di artisti della mia etichetta. Successivamente, nell’ambito di un festival, ho fatto una settimana di promozione per Avant la première fois. L’album ha avuto diritto a una copertina giapponese e ho anche girato un videoclip a Tokyo. Ciò che è affascinante è cantare in francese per un pubblico che non comprende necessariamente le parole. Loro ascoltano semplicemente la musica delle parole e le sonorità. Amo questa idea di essere apprezzato per la melodia e l’atmosfera, perché io stesso ascolto artisti internazionali come Cesária Évora senza capire la sua lingua, ma intuendo un po’. Il fatto di toccare questo pubblico lontano è molto interessante e mi piacerebbe molto tornare per esplorare questa relazione speciale.
Le emozioni e la musica si alimentano a vicenda poiché parlano la stessa lingua…
Lei ha gusti musicali eclettici. Mi ha confidato di avere una vera passione per la canzone italiana. Ci racconti!
È vero, ho una passione per l’Italia. Ho cominciato a viaggiare regolarmente nel vostro Paese negli anni 2000. A Milano, andavo spesso a comprare opere di Mina e Patty Pravo in un enorme negozio di dischi nella Galleria Vittorio Emanuele. È così che ho scoperto artiste come l’attrice Catherine Spaak, Grazia Di Michele e Fiorella Mannoia. Adoro la sua voce grave e il suo fraseggio unico: è un’artista per cui mi piacerebbe comporre un giorno. Apprezzo anche Sergio Cammariere, Fabrizio De André e Luigi Tenco. Ho imparato molto ascoltando Riccardo Cocciante, a mio avviso uno dei migliori musicisti. Inoltre, seguo con piacere ciò che è più recente, come Marco Mengoni, e continuo a tenere d’occhio le novità di Mina e Patty Pravo. Ascolto anche pezzi di vedettes francesi nella lingua di Dante Alighieri. Un esempio è Blam, Blam, Blam di Sylvie Vartan, che si trova in una compilation che ha quel lato glamour, sensuale e cinematografico che amo. Il Bel Paese possiede un senso innato della grande melodia.
L’adorazione che ho per la vostra nazione ha ispirato il mio stesso lavoro. Ho composto l’intero album Au hasard cet espoir in Italia. Si tratta di un’opera che conta molto per me anche a causa del suo filo conduttore tematico: le grandi passioni. È interamente centrato sulle dichiarazioni, le rotture e l’intensità degli amori. La canzone Les archives du cœur è direttamente legata alla Costiera Amalfitana. La storia del brano parla delle statue spezzate dell’artista Sandulli. Sono stato ispirato dal romanzo Credere al meraviglioso, la cui azione si svolge attorno alle sue opere. Ho vissuto una coincidenza incredibile: un’estate, mentre componevo a Positano, stavo leggendo quel libro e mi sono reso conto di essere esattamente nel luogo in cui si svolgeva la storia! L’ho condiviso su Instagram e l’autore mi ha confermato che mi trovavo proprio nel luogo della sua scrittura.
Posso dire che amo l’arte di vivere e la bellezza italiana.
A proposito di luoghi magici, gli album Au hasard cet espoir e Que savons-nous de nous ? includono il Suo duetto con Charlotte Rampling…
Sì: Via Condotti. Questo duetto è nato dal mio colpo di fulmine per Roma. Ho scoperto questa città una quindicina d’anni fa e ci torno regolarmente. Adoro il centro storico, in particolare i quartieri intorno a Via Condotti e Piazza di Spagna, che sono per me dei luoghi stupendi. L’idea della canzone è quella di due personaggi che si parlano a distanza, inviandosi un ricordo come una cartolina. Ho invitato Charlotte, che ha immediatamente accettato, trovando che il brano fosse cucito su misura per lei. Per il videoclip, abbiamo deciso di non mostrarci. Ho realizzato un video che è una sorta di cartolina visiva di Roma, mescolando i gadget delle bancarelle e la grandezza dei monumenti antichi. Non vi si vede alcun essere umano, unicamente la pietra e le immagini. A Roma, ci si sente davvero nella culla della storia europea; si prende coscienza del legame tra l’Antichità e il presente, cosa che ho trovato piuttosto magica.
Visto che parliamo del Bel Paese, Lei ha ripreso dei classici come L’importante è finire di Mina con Inès-Olympe Mercadal in francese, mentre ha prodotto La Bambola di Patty Pravo in italiano per Lolly Wish. Cosa motiva la scelta della lingua per queste canzoni?
Adoro L’importante è finire, la trovo eccezionale. Per Mina, esisteva già un testo francese ufficiale all’epoca, quindi l’abbiamo semplicemente recuperato per il piacere di cantare questo bellissimo ritmo. Ho preferito non massacrarla cantando io stesso in italiano (ride, n.d.r.). Inoltre, in Francia, è una canzone conosciuta ma che non si sente mai, il che giustificava il rimetterla in luce. La Bambola, invece, è un classico molto popolare e spesso utilizzato. È la mia amica Lolly Wish, per la quale produco dei dischi, che desiderava da tempo farne una nuova versione. Abbiamo modernizzato l’arrangiamento pur rimanendo fedeli all’originale, aggiungendo un’interpretazione più teatrale. Penso che il nostro lavoro permetta a La Bambola di esistere per una nuova generazione qui nell’Esagono. Il testo in francese che avevamo a disposizione era poco attuale ed è per questo che abbiamo deciso di lasciarla in italiano. Questo senso della melodia completamente italiano mi ispira profondamente, perché mi sento molto vicino a questa estetica.
Lei è percepito come un esteta. La rivista Tribu Move L’ha definita un “Dandy dei tempi moderni”. Si riconosce in questa caratteristica?
Sì, credo. Anche se non rientro nel cliché del dandy tradizionale, mi riconosco in questa caratteristica perché sono molto interessato all’estetica e mi piace incrociare le discipline.

In quanto esteta, sembra che la Sua musica sia spesso innescata da elementi visivi: un’immagine di film, un vestito, o un gesto. Come si svolge questo processo creativo?
Non c’è una regola precisa, ma il mio processo creativo è spesso innescato da un’immagine o un’estetica. È come se dovessi trovare il profilo di una canzone, la sua allure, il suo disegno. L’ispirazione può venire da qualsiasi fonte: una scena di film, un vestito, un’atmosfera, o anche un viso. Mi piace anche comporre direttamente sulle parole. C’è una musica nel testo: guardo le parole, suono il pianoforte e la melodia arriva. Non sono un artista che cerca l’ispirazione, la lascio venire. Ho la fortuna che ciò accada naturalmente. Non ho mai avuto bisogno di forzarmi, compongo molto lavorando allo stesso tempo sui testi, come quelli di Élisa Point, e lascio che gli elementi che mi ispirano dettino il cammino.

Potrebbe farci un esempio concreto?
Sì. Per l’album di Françoise Fabian, la canzone L’enfer sera mon autre ciel mi è stata ispirata dal film Raphaël ou le Débauché. La musica non ha nulla a che vedere con la colonna sonora, ma il clima, la seduzione e l’estetica del prodotto audiovisivo hanno immediatamente provocato l’ispirazione per la melodia e l’orchestrazione. Allo stesso modo, quando ho creato suoni per Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa di Dior per anni, lei ci dava a volte delle immagini o delle parole chiave della sua collezione, e questo era sufficiente a far nascere la musica nella mia testa. La mia ispirazione viene anche molto dall’atteggiamento. Charlotte Rampling è un’artista molto visiva. Il suo primo brano con me, Non, je ne vois pas qui vous êtes, è stata ispirata dal suo sguardo penetrante e da quella bellezza fredda. Volevamo rendere omaggio a questa immagine, quella di una donna che rifiuta con un certo sdegno un flirt insistente. L’ispirazione di base è quindi l’atteggiamento e la messa in scena, ma ciò che è magico è che da questa immagine si arriva a un risultato molto intimo e sincero, che esprime una verità emozionale.

La dimensione visiva è essenziale nella Sua arte. Come si articola questa estetica forte con la Sua musica per creare l’immagine globale della Sua opera?
La dimensione visiva si impone progressivamente: la lascio venire a mano a mano che il progetto avanza. Per l’album Au hasard cet espoir, composto in Italia, ero immerso in un’estetica greco-romana per le grandi passioni che raccontavo. Dato che mi dicevano che il mio profilo evocava una statua perché avevo una folta barba e facevo molto sport, ho avuto l’idea della copertina: una sorta di moneta o di ex voto con il mio profilo. Avevo fatto un servizio fotografico in cui ero dipinto con la foglia d’oro, ed è questo profilo che abbiamo usato per creare un immaginario forte, ispirato all’Antichità. Per l’album successivo, Le grand danger de se plaire, che trattava le avventure di una sera o la seduzione passeggera, l’estetica è cambiata. Ho avuto l’opportunità di collaborare con Pierre et Gilles, che stavano preparando un’esposizione sul tema della notte. Ho trovato che il loro lavoro pop e teatrale corrispondesse perfettamente all’aspetto istantaneo della mia opera. Che sia greco-romana o pop, l’estetica serve sempre da supporto alla tematica del disco.


Lei ha sempre mantenuto un legame forte con la moda: Sua madre è designer, Suo padre ottico, e Lei ha composto per marchi come Dior o Valentino, senza dimenticare suo fratello, Thierry Lasry, e la sua casa di occhiali da sole. Che posto occupa l’arte dello stile nella Sua vita e nel Suo processo creativo?
La moda è una passione da sempre. Penso di avere buon occhio, ma non ho il talento per creare necessariamente moda, vestiti o disegnare. È un ambito che mi attirava, insieme al cinema e alla musica. Questo legame è familiare: mia madre è designer, e con mio fratello, abbiamo co-fondato la marca di occhiali Thierry Lasry, perpetuando una tradizione che esisteva già nei nostri genitori. Ho anche lanciato la mia linea di gioielli negli anni 2010, prima che la musica non mi lasciasse più il tempo di occuparmene. La moda nutre la musica con il suo senso dell’atteggiamento, dei colori e delle materie. Comporre canzoni originali per marchi di moda è dunque naturale per me. Sono convinto che, per una visione completa, bisogna associare la creazione di vestiti a un suono inedito, piuttosto che a un successo già esistente. Ciò permette allo spettatore di vivere uno spettacolo completo, visivo e sonoro. Ho avuto questa fortuna componendo per brand come Dior, dove traducevo le immagini e le parole chiave della stilista in musica. Aspetto d’altronde sempre la maison che oserà organizzare una sfilata con unicamente brani originali! Ho anche fatto partecipare personalità della moda ai miei progetti, come il grande Claude Montana che appare in una delle mie canzoni. La sua moda futuristica e molto estetica è per me una vera e propria architettura inspiratrice.
Voi siete entrambi molto riconosciuti nei vostri rispettivi ambiti. Qual è la Sua relazione con Suo fratello?
Abbiamo una relazione che si è evoluta nel tempo, ma siamo molto uniti. Abbiamo solo 5 anni di differenza e siamo cresciuti come due amici. Benché siamo diversi in apparenza, esiste un legame profondo che ci unisce. Ciò che è affascinante è che ci ritroviamo su gusti comuni. Ci capita di avere le stesse idee nello stesso momento o di scegliere la stessa cosa senza esserci consultati. Anche se lui è andato a vivere a New York 13 anni fa, questa vicinanza continua. Penso che ciò derivi dalla nostra infanzia e dalla nostra educazione, che hanno forgiato un modo di pensare e un senso estetico condivisi.

È una cosa molto bella!
Proseguiamo su Dior: lei ha composto Let’s Disco per la campagna Autunno-Inverno 2021, un brano poi remixato da Giorgio Moroder per la sfilata a Shanghai. Forte di questo successo, la rivista Forbes ha scritto che Lei “compone con gli occhi e veste la musica”. Che significa questa magnifica formula?
Sì, non era male (ride, n.d.r.). Forbes ha tradotto quest’idea che mi definisce bene: comporre con gli occhi è il mio approccio all’osservazione. Questo significa che la mia ispirazione nasce dal modo in cui guardo le cose. È quest’importanza data allo sguardo che fa sì che io vesta la musica, dandole un’allure che corrisponde all’immagine che ho percepito.
La mediatizzazione della sfilata di Shanghai, la prima di Dior e di LVMH dopo la pausa Covid, ha attirato l’attenzione sulla mia collaborazione con la moda.
Il Suo penultimo album si intitola Le grand danger de se plaire, ovvero Il grande pericolo di piacersi. Lei ha evocato un’ambivalenza, dove il piacere rimanda sia alla seduzione dell’altro che all’amore per sé. Può spiegare il senso profondo di questo enunciato?
Per me, il titolo Le grand danger de se plaire rimanda al grande pericolo di piacere a qualcuno, alla seduzione, all’ignoto. È l’adrenalina di ciò che accade quando si esce di casa, pronti a presentarsi nel grande teatro della vita. Peraltro, la foto di Pierre et Gilles mi mostra in smoking per incarnare questo momento in cui ci si veste e si esce, non sapendo cosa succederà. È un pericolo non nel senso di sventura, ma nel senso di una presa di rischio emozionale: qualcosa di importante sta per accadere. Ho constatato che alcuni interpretano anche il titolo come il pericolo dell’auto-soddisfazione, ma la mia intenzione iniziale era di catturare la vertigine dell’incontro.

A proposito di questo titolo, il giudizio degli altri La tocca particolarmente?
Potrei rispondere di no, ma non bisogna mentire: ovviamente, il giudizio degli altri ci e mi tocca. Quando si crea, si ha sempre voglia di piacere e di essere amati. Non compongo in funzione di ciò che la gente vuole sentire, ma c’è una parte di seduzione naturale. È normale amare sentirsi desiderati o apprezzati, che sia nella musica o anche in una semplice foto (ride, n.d.r.)!
Lei si ama?
Direi che, senza cadere nell’auto-celebrazione, cerco di fare in modo di non detestarmi. È essenziale essere in accordo con chi si è, interiormente ed esteriormente. Globalmente, va bene (ride, n.d.r.)! Avevo peraltro cantato il titolo ironico Je n’aime que moi, ovvero Amo solo me stesso, sul mio primo album, una canzone sull’amore per sé stessi affrontata con umorismo.
Per riprendere il titolo del Suo album del 2025, Que savons-nous de nous ?, che vuol dire Che sappiamo di noi?, cosa sa Léonard Lasry di sé stesso oggi?
Credo che il titolo Que savons-nous de nous ? rimandi al cammino di ogni vita: imparare a conoscersi, scoprirsi e comprendersi. La conoscenza di sé è essenziale per stare bene con gli altri. Non posso dire che alla mia età io sappia tutto di me, ma con il tempo e l’esplorazione, si fanno dei collegamenti e si continua ad imparare. È un lavoro affascinante. Peraltro, è simbolico aver fatto cantare questa canzone a Françoise Fabian, una donna di oltre 90 anni. Ho trovato interessante avere due generazioni molto diverse che si pongono questa stessa domanda sulla conoscenza di sé, un processo che non si ferma mai.
Esiste un conflitto tra le due dimensioni della Sua persona: l’artista e l’uomo che è?
No, sono in armonia. Qualche anno fa, si poteva osservare uno scarto tra la mia immagine pubblica, dove apparivo molto serio, quasi aggressivo in foto, e la mia musica, spesso dolce e romantica. Oggi, non c’è più lotta. Al contrario, ciò che faccio è il prolungamento di ciò che sono. Quando la gente viene ad ascoltarmi cantare riceve cose molto intime, che vengono dal cuore. Alla fine, non c’è nessuna differenza tra l’artista e l’uomo.

Che rapporto ha con i Suoi ammiratori?
Ho una relazione molto buona con i miei fan.
Cosa spera di trasmettere agli ascoltatori delle Sue canzoni?
Per ora, non interpreto canzoni con messaggi sociali o politici. Il mio intento è davvero centrato sui messaggi del cuore e sui sentimenti. Ciò che desidero è che la gente si ritrovi nelle storie o si appropri delle storie che propongo. Mi piace che il pubblico abbia piacere ad ascoltare, che si senta vicino a un modo di pensare o che sia sedotto da una bella melodia. Credo che si entri in una canzone attraverso il ritmo, ma se le parole sono belle, ci si rimane. L’obiettivo è riuscire ad affascinare la gente con un nuovo modo di raccontare, di condividere la mia sensazione e il mio modo di descrivere i sentimenti.

Lei ha dichiarato a Le Monde: “Considero i concerti non come un ricalco delle mie registrazioni, ma come un altro modo di presentare le mie canzoni”. Cosa rappresenta per Lei salire sul palco?
Per me, salire sul palco è l’occasione per un viaggio più intimo nel sentimento e nelle canzoni. Se i dischi si permettono arrangiamenti complessi e artifici, io amo sul palco l’essenzialità: si tratta di tenere il pubblico in bilico e di farlo viaggiare nell’intimità del verbo, dove la voce si sente molto forte. L’interesse del concerto è proprio quello di proporre quest’altro modo di presentare le canzoni. Mi piace reinventare i brani e offrire una sorpresa. La scena è un contesto ancora più intimo della registrazione per me.
Ha l’ansia da prestazione prima di un concerto?
Ce l’avevo ai miei esordi, quando facevo concerti gratuiti e veloci nei negozi di dischi per promuovere i miei primi album. Quell’esperienza mi ha tolto ogni apprensione. Per me, il palco è un momento di piacere. Sono piuttosto eccitato positivamente e rilassato, contrariamente a coloro che tremano o hanno la gola annodata. È questo che amo trasmettere: un momento di intimità, di condivisione e di calore. Se fossi stressato, andrebbe contro questo spirito.

Léonard, quali sono i Suoi progetti futuri?
Il mio progetto più grande attuale è la scrittura di un musical, un sogno che sto concretizzando. Parallelamente, desidero continuare gli incontri belli e le collaborazioni. Per uscire dal formato tradizionale dell’album, vorrei allargare i miei orizzonti e calcare anche i palcoscenici all’estero. Il mio sogno è fare grandi tournée e cantare in molti paesi diversi. Ad esempio a Roma, magari a Villa Medici. Creare per Broadway, il cinema o il teatro è un obiettivo che mi ha sempre affascinato, e su cui lavoro attivamente per arricchire il mio percorso.

La aspettiamo!
Tra i suoi progetti in arrivo, Lei inizia un tour ad ottobre. Quali sono le prime città in cui si esibirà?
Grazie!
Le prime quattro città annunciate per ottobre sono Bordeaux, Tolosa, Parigi e Lione. Sono entusiasta di andare incontro alle persone in città dove non mi sono mai esibito. All’inizio del prossimo anno, sono previste anche delle date in Svizzera e in Belgio. L’Italia resta ovviamente tra i miei obiettivi! Per qualsiasi altra informazione, il pubblico può seguirmi su Instagram, Facebook, Spotify o sul mio sito.
E quali sono i Suoi progetti personali per l’avvenire?
Il mio principale progetto personale è quello di padroneggiare e addomesticare il tempo, che è un vero lusso. Voglio lottare per trovare un equilibrio: fare tutto ciò che desidero, godendomi l’esistenza. Ciò passa attraverso il viaggiare, il pensare ad altro, e soprattutto il leggere. La letteratura è una grande passione. Leggere è una delle mie attività preferite, e non appena sono libero, mi ci dedico.

A Le Figaro Lei ha risposto a una domanda sui Suoi sogni: “Ho già dei sogni molto impegnativi. Vorrei ritrovare le persone scomparse”. Se avesse una bacchetta magica e potesse far tornare una persona che non c’è più, chi sceglierebbe e che cosa le direbbe?
Sceglierei senza dubbio di far tornare un caro amico, artista, che se n’è andato brutalmente 15 anni fa. Il suo ricordo e la nostra complicità mi hanno ispirato molto e continuano ad accompagnarmi. Il suo sguardo e i suoi gusti mi hanno insegnato moltissimo.
Un altro incontro significativo è stato con lo stilista Hervé Léger. Eravamo diventati molto uniti. Aveva appena realizzato il suo sogno con me, quello di registrare un disco: Blue Sapphire, uscito nel 2017. La sua morte improvvisa, dopo solo qualche anno che ci conoscevamo, mi ha causato un dolore immenso, perché il nostro legame artistico e personale stava diventando più forte.
Se uno di loro potesse tornare, anche solo per 10 minuti, sarebbe per rivederli, senza avere necessariamente bisogno di parlare, ma solo per quel momento di ricongiungimento.

Grazie per questa condivisione così personale!
Lei ha iniziato la Sua carriera molto giovane. Quale consiglio darebbe il Léonard Lasry di oggi al Léonard 24enne?
Il Léonard di oggi non darebbe consigli, ma direbbe al Léonard di ieri di fare esattamente ciò ha fatto, cioè seguire il suo istinto. Nonostante l’evoluzione costante, poiché non sono più lo stesso di 3 anni fa, e ancora meno di 19 anni fa, c’è comunque un filo conduttore che mi lega ai miei esordi. Sono un altro pur essendo lo stesso; vedo il mio percorso come un prolungamento continuo. La mia voce ha guadagnato calore e fluidità, ma sono abbastanza soddisfatto di non aver nulla da rinnegare delle mie prime canzoni. Ho fatto le cose seguendo le mie idee fino in fondo.

Lei ha menzionato di aver avuto la fortuna di essere sempre stato libero nell’espressione delle Sue passioni. Cosa significa questo concretamente? Secondo Lei, qual è la definizione di libertà, nel Suo mestiere e nella vita?
La libertà è innanzitutto di creare un sistema che mi permetta di realizzare i miei progetti come li concepisco. Concretamente, è non avere qualcuno che mi dica “No” per la scelta di una canzone, di uno strumento, di una copertina o di un videoclip. Anche se mi circondo di persone talentuose, la libertà consiste nell’ascoltare i consigli pur essendo in grado di fare ciò che si vuole davvero. Ho visto troppi artisti fare concessioni, essere delusi dal risultato e infelici per non aver seguito la loro intuizione. La mia marca di fabbrica, è di fare come sento, perché è così che posso restare in una verità e una sincerità. Se facessi altrimenti, non sarebbe vero, e questo per me è impensabile.

Ad oggi, qual è la colonna sonora della Sua vita?
Praticamente tutta la mia vita d’adulto si è scritta in canzoni. Tutto ciò che ho composto per me stesso e per gli altri forma un diario intimo sonoro. Al di fuori della mia musica, la mia colonna sonora include Cesária Évora e Julien Clerc o Paul McCartney. Se dovessi scegliere due brani personali che mi definiscono di più, sarebbero L’éternel savoir vivre, che canto ad ogni concerto, e Avant de me faire oublier.
La sua opera esplora molto le emozioni e le passioni. Che posto occupa l’amore nella Sua vita?
L’amore ha un posto molto importante nella mia vita. Innanzitutto, perché mi ispira enormemente, ma anche perché arricchisce l’esistenza, che si sia in coppia o meno. È un potente veicolo di espressione, poiché le variazioni di sentimenti e gli sconvolgimenti che una storia d’amore apporta forniscono la materia per raccontare moltissime cose. Sono attratto da questo argomento, ma credo nel destino: non si sceglie l’amore, ti cade addosso. Non credo che lo si cerchi, credo che ti trovi. Se è destinata, una storia d’amore arriva e bisogna viverla.
È innamorato attualmente?
Sì (ride, n.d.r.).

Desidera aggiungere qualcosa?
Una bella storia d’amore apporta un’energia fondamentale per creare. Essere sostenuti dall’amore rende la vita più bella, più dolce, e ciò mette le ali alla creatività e alle idee. Quando una parte di sé è serena, si riesce a fare bene le cose. So che alcuni artisti sono molto produttivi quando sono malinconici, ma, personalmente, la felicità amorosa mi fa piuttosto bene.
Congratulazioni allora!
Grazie mille!

Ringraziamo Léonard Lasry per la generosità e la profondità con cui ha condiviso il suo percorso artistico e umano. La sua musica, intrisa di eleganza e sensibilità, è un dialogo costante tra passato e presente, un atto di grazia che attraversa i generi senza mai perdere autenticità. Il suo lavoro dimostra come l’arte, se vissuta con libertà e visione, possa unire la bellezza e la verità del sentire umano.
Léonard Lasry, la beauté comme acte de liberté – INTERVIEW EXCLUSIVE


Compositeur, auteur et interprète, Léonard Lasry incarne l’élégance contemporaine de la chanson française. Né à Paris en 1982, pianiste depuis l’enfance, il a grandi entre musique, mode et art. Sa carrière, nourrie d’un imaginaire visuel fort et d’un goût pour les mélodies intemporelles, l’a conduit à collaborer avec des figures iconiques telles que Charlotte Rampling et Sylvie Vartan. Ses créations, suspendues entre introspection et passion, forment un pont entre tradition et modernité, un dialogue constant entre le son et l’image, entre la grâce et la sincérité émotionnelle.
Aujourd’hui, Lasry s’impose comme l’un des artistes les plus raffinés de la scène française. Après l’album Que savons-nous de nous ? et plusieurs collaborations avec des marques prestigieuses, il participe à la création de nouveaux projets intéressants. Parmi eux, une tournée européenne qui débutera en octobre 2025. Entre objectifs accomplis et rêves encore à concrétiser, l’artiste poursuit un principe qui traverse toute son œuvre : la beauté comme forme de vérité.

Léonard Lasry : « Il n’existe pas d’art sans sincérité… »
Léonard, l’actualité de cette fin d’année est riche ! Entre l’album Que savons-nous de nous ? ; la sortie imminente de la reprise de la chanson de Sylvie Vartan Aimer ; la composition de la bande originale du film Un balcon à Limoges. Vous êtes au cœur de nombreux projets. Pouvez-vous nous parler un peu de cette production foisonnante ?
Oui, absolument. Tout a commencé il y a un peu moins d’un an, alors que je faisais la promotion de mon précédent album, Le grand danger de se plaire. À cette époque, je n’envisageais pas encore de nouvel opus, mais mes nombreuses collaborations ont jalonné mon parcours. Mes nombreuses collaborations, comme avec Fanny Ardant, Charlotte Rampling et Françoise Fabian, m’ont donné envie de rassembler ces rencontres. Je voulais que cet album de duos ait la cohérence d’un véritable disque, racontant une histoire tout en mettant en lumière des titres que les gens connaissaient moins. J’ai enregistré aussi des inédits, notamment le duo avec Maria de Medeiros qui ouvre cet album. Et, bien sûr, il me fallait une chanson avec Sylvie Vartan, que j’ai toujours aimée. Nous avions déjà collaboré en 2021 sur son album Merci pour le regard. J’avais écrit Tout reste à dire comme un message idéal que l’artiste pourrait adresser à son public lors d’un éventuel départ de la scène. La nouvelle version, qui a connu un très bel accueil, a pris tout son sens cette année, au moment de la tournée d’adieu. J’ai souhaité prolonger cette histoire avec Sylvie sur un vinyle maxi 45 tours dédié à ce titre. J’y ai donc enregistré ma reprise d’Aimer, une très belle chanson de Jean-Loup Dabadie que j’ai réarrangée de façon plus romantique et essentielle, et qui servira de face B au disque. Ce titre sortira en single et en clip le 10 octobre. En outre, la bande originale du film Un balcon à Limoges de Jérôme Reybaud qui a eu un prix au Festival de Locarno en Août et qui est présenté au Festival de Salerno cette semaine.
Écrire pour un monument de la chanson française comme Sylvie Vartan est un aboutissement, d’autant plus que vous en êtes maintenant fan. Qu’est-ce que cela signifie pour l’artiste et pour la personne que vous êtes ?
Travailler avec Sylvie Vartan a été un moment magique, bien sûr. Cependant, toute appréhension a vite disparu. À la première rencontre, Sylvie et son mari Tony Scotti ont créé une ambiance très amicale, presque familiale. C’était étonnant, j’ai eu l’impression qu’on se connaissait déjà. Ils sont venus dîner chez moi, et nous avons tout de suite travaillé au piano, dans une atmosphère très chaleureuse. Même si je suis habitué à diriger les chanteurs en studio, je pensais laisser Sylvie tranquille. Mais en réalité, elle était ravie que je lui donne des indications, que nous voyions les chansons ensemble. L’émotion est arrivée juste avant la sortie de l’album, quand le titre Merci pour le regard a été dévoilé en premier sur les plateformes et passé en radio. J’ai eu l’impression d’apporter une petite pierre à son immense répertoire. J’ai été particulièrement touché quand Sylvie a dit que cet album était l’un de ses préférés et que mes 5 chansons avaient servi de base pour construire le reste du disque. C’est une grande fierté, et cela explique pourquoi nous avons eu envie de prolonger cette belle histoire avec le duo Tout reste à dire et maintenant avec la reprise d’Aimer.
Vous avez écrit ou composé pour des icônes comme Charlotte Rampling, Marie France, Sylvie Vartan ou Fanny Ardant. Qu’est-ce qui vous inspire le plus chez ces divas, dont certaines ne sont pas des chanteuses de métier ?
Ce sont avant tout des visions rêvées. Quand je compose pour ces légendes, mon point de départ est une vision que j’ai d’elles, souvent inspirée par leurs films ou leurs photos. Même quand elles ne sont pas chanteuses de métier, leur voix et leur phrasé sont très puissants. C’est formidable de voir ces divas, qui ont une forte iconographie et une personnalité imposante, s’approprier ces chansons. Ces femmes au grand charisme ont une manière de se mettre en scène et une présence qui transcendent leur simple rôle. J’ai toujours été fasciné par les personnalités qui ont un tel impact. Par exemple, quand on voit Catherine Deneuve jouer, par exemple, même si elle a un rôle, l’icône est toujours là. Sa présence et sa voix prennent le dessus. Regardez le film Huit Femmes : toutes les actrices chantaient avec une présence particulière, non pas comme des chanteuses, mais comme des interprètes en incarnant la chanson d’une façon tout à fait unique. L’idée de les faire chanter, d’utiliser cette puissance interprétative sur de la musique, m’inspire énormément. C’est ce qui crée quelque chose de très fort, comme le faisaient des personnalités comme Régine, qui n’était pas une chanteuse à la base, mais qui habitait les chansons avec sa seule personnalité.
Léonard, remontons un peu le temps. Né à Paris, vous avez commencé le piano dès l’âge de 4 ans. De quelle manière cette précocité a-t-elle entraîné une répercussion sur l’artiste que vous êtes devenu ? Et sur votre processus de composition ?
Je pense que mon enfance a été marquée par une grande liberté, ce qui a été essentiel. Mes parents m’ont toujours fait confiance et m’ont laissé l’espace et le temps nécessaires pour me développer. J’étais un enfant rêveur et sage : je lisais beaucoup, j’écoutais de la musique classique et, surtout, je pianotais. J’imaginais être Mozart ou un compositeur de bandes originales. Cette indépendance d’imaginer que les choses étaient possibles a été la base de tout. À l’adolescence, je me suis tourné vers la variété et la pop. Vers l’âge de 16 ans, j’ai eu le déclic : je voulais écrire des chansons pour d’autres artistes. C’est un directeur artistique qui m’a suggéré : « Pourquoi ne chantes-tu pas toi-même ? ». Alors, j’ai compris que pour créer un répertoire plus original et personnel, il était plus efficace d’écrire pour moi. C’est ainsi que, vers 24 ans, peu de temps après mes études, j’ai sorti mon premier album, Des illusions. Finalement, ma carrière actuelle est un mélange de mon rêve de départ et de cette opportunité découverte en chemin. C’est très gratifiant de voir ces aspirations se réaliser.

Comme vous l’avez mentionné, vous avez lancé votre premier album, Des illusions, en 2006. Quel souvenir conservez-vous de cette première étape de votre carrière, à l’âge de 24 ans ?
Je garde un très bon souvenir et je suis content des choix faits à l’époque. Au début, j’avais envisagé des orchestrations, mais heureusement, le projet n’a pas abouti. Nous nous sommes alors recentrés sur un album piano-voix, presque récital. Fait intéressant, ce n’est pas moi qui joue du piano sur cet album. J’ai fait appel à un pianiste de jazz, que j’ai vu sur scène avec la chanteuse Barbara Carlotti, pour apporter une couleur différente à mes compositions. Le résultat est un son un peu plus adulte et intemporel, ce qui est une bonne chose. Aujourd’hui, je suis toujours en phase avec ces premières chansons qui témoignent de mes débuts. Le fait d’avoir opté pour ce son fait que je n’ai pas honte de ce disque : il n’a pas mal vieilli. Même si ma musique est devenue plus pop par la suite, cet album de démarrage pose de belles bases.
Comment le succès est-il arrivé dans votre carrière ? Comment avez-vous perçu cette reconnaissance du public, le fait d’être écouté par les gens ?
Le succès est venu progressivement. J’ai commencé à vraiment m’en rendre compte à mon retour en 2017, après une période où j’étais moins visible en tant que chanteur. J’ai sorti l’EP Le seul invité, prélude à mon album Avant la première fois, qui marquait une nouvelle maturité avec les textes d’Élisa Point. L’accueil a été excellent et très touchant. L’album a reçu de très belles critiques et a créé un véritable élan, m’ouvrant de nouvelles portes. Ce disque, que je considérais comme plus abouti que les précédents, a été l’amplification que j’attendais. Sa bonne réception m’a donné des ailes, me prouvant que les gens souhaitaient que je continue de chanter. Un signe fort de cette reconnaissance a été l’édition spéciale pour le Japon en 2018, un moment inoubliable.
En tant qu’artiste européen, que signifie pour vous le fait d’avoir trouvé un écho sur un continent aussi éloigné ?
J’ai adoré l’expérience en Asie. Je savais qu’à Tokyo, il existait une culture pointue et passionnée pour la chanson et le cinéma français. On y trouve des éditions et des pressages d’artistes français parfois méconnus chez nous. Il y a une place, certes petite, mais réelle, pour notre musique. Ce n’était pas mon initiative : un label japonais m’a contacté pour des compilations d’artistes de mon propre label. Ensuite, dans le cadre d’un festival, j’ai fait une semaine de promotion pour Avant la première fois. L’album a eu droit à une pochette japonaise, et j’ai même tourné un clip à Tokyo. Ce qui est fascinant, c’est de chanter en français pour un public qui ne comprend pas nécessairement les paroles. Ils écoutent simplement la musique des mots et les sonorités. J’aime cette idée d’être apprécié pour la mélodie et l’atmosphère, car moi-même j’écoute des artistes internationaux comme Cesária Évora sans comprendre sa langue, mais en devinant un peu. Le fait de toucher ce public lointain est très intéressant et j’aimerais beaucoup retourner explorer cette relation spéciale.
Les émotions et la musique s’entretiennent mutuellement, car elles parlent la même langue…
Vous avez des goûts musicaux éclectiques. Vous m’avez confié avoir une vraie passion pour la chanson italienne. Racontez-nous !
C’est vrai, j’ai une passion pour l’Italie. J’ai commencé à voyager régulièrement dans votre pays dans les années 2000. À Milan, j’allais souvent acheter des œuvres de Mina et Patty Pravo dans un magasin de disques de la Galerie Vittorio Emanuele. C’est ainsi que j’ai découvert des artistes comme l’actrice Catherine Spaak, Grazia Di Michele et Fiorella Mannoia. J’adore sa voix grave et son phrasé unique : c’est une artiste pour qui j’aimerais composer un jour. J’apprécie également Sergio Cammariere, Fabrizio De André et Luigi Tenco. J’ai beaucoup appris en écoutant Riccardo Cocciante, à mon avis l’un des meilleurs musiciens. De plus, je suis avec plaisir les nouveautés plus récentes, comme Marco Mengoni, et je continue de garder un œil sur l’actualité de Mina et Patty Pravo. J’écoute aussi des morceaux de vedettes françaises dans la langue de Dante Alighieri. Un exemple est Blam, Blam, Blam de Sylvie Vartan, qui se trouve dans une compilation ayant ce côté glamour, sensuel et cinématographique que j’aime. Le ‘Bel Paese’ possède un sens inné de la grande mélodie.
L’adoration que j’ai pour votre nation a inspiré mon propre travail. J’ai composé l’intégralité de l’album Au hasard cet espoir en Italie. Il s’agit d’un album qui compte beaucoup pour moi, notamment en raison de son fil rouge thématique : les grandes passions. Elle est entièrement centrée sur les déclarations, les ruptures et l’intensité des amours. La chanson Les archives du cœur est directement liée à la Côte Amalfitaine. L’histoire du morceau parle des statues brisées de l’artiste Sandulli. J’ai été inspiré par le roman Croire au merveilleux, qui se déroule autour de ses œuvres. J’ai vécu une coïncidence incroyable : un été, alors que je composais à Positano, je lisais ce livre et j’ai réalisé que j’étais exactement à l’endroit où l’histoire se passait ! J’ai partagé cela sur Instagram, et l’auteur m’a confirmé que j’étais sur le lieu même de son écriture.
Je peux dire que j’aime l’art de vivre et la beauté italienne.
À propos d’endroits magiques, les albums Au hasard cet espoir et Que savons-nous de nous ? incluent votre duo avec Charlotte Rampling…
Oui : Via Condotti. Ce duo est né de mon coup de cœur pour Rome. J’ai découvert cette ville il y a une quinzaine d’années et j’y retourne régulièrement. J’adore le centre historique, notamment les quartiers autour de Via Condotti et de Piazza di Spagna, qui sont pour moi des endroits merveilleux. L’idée de la chanson est celle de deux personnages qui se parlent à distance, s’envoyant un souvenir comme une carte postale. J’ai invité Charlotte, qui a immédiatement accepté, trouvant que le morceau était cousu sur mesure pour elle. Pour le clip, nous avons décidé de ne pas nous montrer. J’ai réalisé une vidéo qui est une sorte de carte postale visuelle de Rome, mélangeant les gadgets des étalages et la grandeur des monuments antiques. On n’y voit aucun être humain, uniquement la pierre et les images. À Rome, on se sent vraiment au berceau de l’histoire européenne ; on prend conscience du lien entre l’Antiquité et le présent, ce que j’ai trouvé assez magique.
Puisque nous parlons du Bel Paese, vous avez repris des classiques comme Pour en finir, comment faire ? de Mina avec Inès-Olympe Mercadal en français, tandis que vous avez produit La Bambola de Patty Pravo en italien pour Lolly Wish. Qu’est-ce qui motive le choix de la langue pour ces chansons ?
J’adore L’importante è finire, je la trouve formidable. Pour Mina, il existait déjà un texte français officiel à l’époque, donc nous l’avons simplement récupéré pour le plaisir de chanter ce très beau rythme. J’ai préféré ne pas la massacrer en chantant moi-même en italien (il rit, N.d.R.). De plus, en France, c’est une chanson connue mais que l’on n’entend jamais, ce qui justifiait de la remettre en lumière. La Bambola, en revanche, est un classique très populaire et souvent utilisé. C’est mon amie Lolly Wish, pour qui je produis des disques, qui souhaitait depuis longtemps en faire une nouvelle version. Nous avons modernisé l’arrangement tout en restant fidèles à l’original, en ajoutant une interprétation plus théâtrale. Je pense que notre version permet à La Bambola d’exister pour une nouvelle génération ici en Hexagone. Le texte en français qu’on avait à disposition était peu actuel et c’est pour cela qu’on a décidé de la laisser en italien. Ce sens de la mélodie complètement italien m’inspire profondément, car je me sens très proche de cette esthétique.
Vous êtes perçu comme un esthète. Le magazine Tribu Move vous a défini comme un « Dandy des temps modernes ». Vous retrouvez-vous dans cette caractéristique ?
Oui, je crois. Bien que je ne sois pas dans le cliché du dandy traditionnel, je me reconnais dans cette caractéristique car je suis très porté sur l’esthétique et j’aime croiser les disciplines.

En tant qu’esthète, il semble que votre musique soit souvent déclenchée par des éléments visuels : une image de film, un vêtement, ou un geste. Comment ce processus créatif s’opère-t-il ?
Il n’y a pas de règle précise, mais mon processus créatif est souvent déclenché par une image ou une esthétique. C’est comme si je devais trouver le profil d’une chanson, son allure, son dessin. L’inspiration peut venir de n’importe où : une scène de film, un vêtement, une ambiance, ou même un visage. J’aime aussi composer directement sur les mots. Il y a une musique dans le texte : je regarde les paroles, je les mets sur le piano et la mélodie vient. Je ne suis pas un artiste qui cherche l’inspiration : je la laisse venir. J’ai la chance que cela vienne naturellement. Je n’ai jamais eu besoin de me forcer, je compose beaucoup en travaillant en même temps avec les textes, comme ceux d’Élisa Point, et je laisse les éléments qui m’inspirent dicter le chemin.

Pourriez-vous nous donner un exemple concret ?
Oui. Pour l’album de Françoise Fabian, la chanson L’enfer sera mon autre ciel m’a été inspirée par le film Raphaël ou le Débauché. La musique n’a rien à voir avec la bande originale, mais le climat, la séduction et l’esthétique du produit audiovisuel ont immédiatement provoqué l’inspiration pour la mélodie et l’orchestration. De même, quand j’ai fait des sons pour Maria Grazia Chiuri, créatrice de Dior pendant des années, elle nous donnait parfois des images ou des mots-clés de sa collection, et cela suffisait à faire naître la musique dans ma tête. Mon inspiration vient aussi beaucoup de l’attitude. Charlotte Rampling est une artiste très visuelle. Son premier morceau avec moi, Non, je ne vois pas qui vous êtes, a été inspiré par son regard perçant et cette beauté froide. Nous voulions rendre hommage à cette image, celle d’une femme qui refuse avec un certain dédain un flirt pressant. L’inspiration de base est donc l’attitude et la mise en scène, mais ce qui est magique, c’est que de cette image, on arrive à un résultat très intime et sincère, qui exprime une vérité émotionnelle.

La dimension visuelle est essentielle dans votre art. Comment cette esthétique forte s’articule-t-elle avec votre musique pour créer l’image globale de votre œuvre ?
La dimension visuelle s’impose progressivement : je la laisse venir à mesure que le projet avance. Pour l’opus Au hasard cet espoir, composé en Italie, j’étais plongé dans une esthétique gréco-romaine pour les grandes passions que je racontais. Comme on me disait que mon profil évoquait une statue parce que j’avais une grosse barbe et je faisais beaucoup de sport. Alors, j’ai eu l’idée de la pochette : une sorte de pièce de monnaie ou d’ex-voto avec mon profil. J’avais fait un shooting où j’étais peint à la feuille d’or, et c’est ce profil que nous avons utilisé pour créer une imagerie forte, inspirée de l’Antiquité. Pour l’album suivant, Le grand danger de se plaire, qui abordait les aventures d’un soir ou la séduction passagère, l’esthétique a changé. J’ai eu l’opportunité de collaborer avec Pierre et Gilles, qui préparaient une exposition sur le thème de la nuit. J’ai trouvé que leur travail pop et théâtral correspondait parfaitement à l’aspect instantané de mon ouvrage. C’était un rêve de poser pour eux, et cela prolongeait notre histoire commune, car j’ai travaillé avec plusieurs artistes, comme Marie France ou Sylvie Vartan, qui sont très proches d’eux. Qu’elle soit gréco-romaine ou pop, l’esthétique sert toujours de support à la thématique du disque.


Vous avez toujours entretenu un lien fort avec la mode : votre mère est designer, votre père opticien, et vous avez composé pour des marques comme Dior ou Valentino, sans oublier votre frère, Thierry Lasry, et sa maison de lunettes de soleil. Quelle place l’art du style occupe-t-il dans votre vie et votre processus créatif ?
La mode est une passion depuis toujours. Je pense que j’ai un œil, mais je n’ai pas de talent pour créer forcément de la mode, des vêtements ou dessiner. C’est un domaine qui m’attirait, avec le cinéma et la musique. Ce lien est familial : ma mère est designer, et avec mon frère, nous avons cofondé la marque de lunettes Thierry Lasry, perpétuant une tradition qui existait déjà chez nos parents. J’ai d’ailleurs aussi lancé ma propre ligne de bijoux dans les années 2010, avant que la musique ne m’en laisse plus le temps. La mode nourrit la musique par son sens de l’attitude, des couleurs et des matières. Composer des chansons originales pour des marques de mode est donc naturel pour moi. Je suis convaincu que, pour une vision complète, il faut associer la création de vêtements à un son inédit, plutôt qu’à un tube existant. Cela permet au spectateur de vivre un spectacle complet, visuel et sonore. J’ai eu cette chance en composant pour des maisons comme Dior, où je traduisais les images et les mots-clés de la créatrice en musique. J’attends d’ailleurs toujours la maison qui osera un défilé avec uniquement des morceaux originaux ! Je suis toujours allé chercher ce lien. J’ai même fait participer des personnalités de la mode à mes projets, comme le grand couturier Claude Montana qui apparaît dans une de mes chansons. Sa mode futuriste et très esthétique est pour moi une véritable architecture inspirante.
Vous êtes tous deux très reconnus dans vos domaines respectifs. Quelle est votre relation avec votre frère ?
Nous avons une relation qui a évolué avec le temps, mais nous sommes très proches. Nous n’avons que 5 ans d’écart et nous avons grandi comme deux amis. Bien que nous soyons très différents en apparence, il existe un lien profond qui nous unit. Ce qui est fascinant, c’est que nous nous retrouvons sur des goûts communs. Il nous arrive d’avoir les mêmes idées au même moment, ou de choisir la même chose sans nous être consultés. Même si mon frère est parti vivre à New York il y a 13 ans, cette proximité continue. Je pense que cela vient de notre enfance et de notre éducation, qui ont forgé une manière de penser et un sens esthétique partagés.

C’est une très belle chose !
Poursuivons sur Dior : vous avez composé Let’s Disco pour la campagne Automne-Hiver 2021, un titre ensuite remixé par Giorgio Moroder pour le défilé à Shanghai. Fort de ce succès, le magazine Forbes a écrit que vous « composez avec les yeux et habillez la musique ». Que signifie cette magnifique formule ?
Oui, ce n’était pas mal (il rit, N.d.R.). Forbes a traduit cette idée qui me définit bien : composer avec les yeux, c’est mon approche de l’observation. Cela signifie que mon inspiration naît de la façon dont je regarde les choses. C’est cette importance accordée au regard qui fait que j’habille la musique, en lui donnant une allure qui correspond à l’image que j’ai perçue.
La médiatisation du défilé de Shanghai, le premier de Dior et de LVMH après la pause Covid, a attiré l’attention sur ma collaboration avec la mode.
Votre avant-dernier album s’intitule Le grand danger de se plaire. Vous avez évoqué une ambivalence, où le plaisir renvoie à la fois à la séduction de l’autre et à l’amour de soi. Pouvez-vous expliquer le sens profond de cet énoncé ?
Pour moi, le titre Le grand danger de se plaire renvoie au grand danger d’aller plaire à quelqu’un, à la séduction, à l’inconnu. C’est l’adrénaline de ce qui se passe quand on sort de chez soi, prêt à se présenter dans le grand théâtre de la vie. D’ailleurs, la photo de Pierre et Gilles me montre en smoking pour incarner ce moment où l’on s’habille et l’on sort, ne sachant pas ce qui va arriver. C’est un danger non pas au sens de malheur, mais au sens d’une prise de risque émotionnelle : quelque chose d’important va se produire. J’ai constaté que certains interprètent aussi le titre comme le danger de l’autosatisfaction, mais mon intention initiale était de capturer le vertige de la rencontre.

À propos de ce titre, le jugement des autres vous touche-t-il particulièrement ?
Je pourrais répondre que non, mais il ne faut pas se mentir : évidemment, le jugement des autres nous et me touche. Quand on crée, on a toujours envie de plaire et d’être aimé. Je ne compose pas en fonction de ce que les gens veulent entendre, mais il y a une part de séduction naturelle. C’est normal d’aimer se sentir désiré ou apprécié, que ce soit dans la musique ou même dans une simple photo (il rit, N.d.R.) !
Vous aimez-vous ?
Je dirais que, sans tomber dans l’autocélébration, j’essaie de faire en sorte de ne pas me détester. Il est essentiel d’être en accord avec qui l’on est, intérieurement et extérieurement. Globalement, ça va (il rit, N.d.R.) ! J’avais d’ailleurs chanté le titre ironique Je n’aime que moi sur mon premier album, une chanson sur l’amour de soi abordée avec humour.
Pour reprendre le titre de votre album de 2025, Que savons-nous de nous ?, qu’est-ce que Léonard Lasry sait de lui-même aujourd’hui ?
Je crois que le titre Que savons-nous de nous ? renvoie au chemin de toute vie : apprendre à se connaître, se découvrir et se comprendre. La connaissance de soi est essentielle pour être bien avec les autres. Je ne peux pas dire qu’à mon âge je sais tout de moi, mais avec le temps et l’exploration, on fait des liens et on continue d’apprendre. C’est un travail fascinant. D’ailleurs, il est symbolique d’avoir fait chanter cette chanson à Françoise Fabian, une femme de plus de 90 ans. J’ai trouvé intéressant d’avoir deux générations très différentes se posant cette même question sur la connaissance de soi, un processus qui ne s’arrête jamais.
Existe-t-il un conflit entre les deux dimensions de votre personne : l’artiste et l’homme que vous êtes ?
Non, je suis en harmonie. Il y a quelques années, on pouvait observer un décalage entre mon image publique, où j’apparaissais très sérieux, presque agressif en photo, et ma musique, souvent douce et romantique. Aujourd’hui, il n’y a plus de lutte. Au contraire, ce que je fais est le prolongement de ce que je suis. Quand les gens viennent m’écouter chanter, ils reçoivent des choses très intimes, qui viennent du cœur. Il n’y a finalement aucune différence entre l’artiste et l’homme.

Et quel rapport entretenez-vous avec vos admirateurs ?
J’ai une très bonne relation avec mes fans.
Qu’espérez-vous transmettre aux auditeurs de vos chansons ?
Pour l’instant, je ne suis pas dans des chansons à messages sociaux ou politiques. Mon propos est vraiment centré sur les messages du cœur et les sentiments. Ce que je souhaite, c’est que les gens se retrouvent dans les histoires ou s’approprient la façon dont les choses sont dites. J’aime qu’ils aient plaisir à écouter, qu’ils se sentent proches d’une manière de penser, ou qu’ils soient séduits par une belle mélodie. Je crois que l’on entre dans une chanson par la mélodie, mais si les paroles sont belles, on y reste. Le but est d’arriver à séduire les gens avec une nouvelle façon de raconter des histoires, de partager mon ressenti et ma manière de décrire ces sentiments.

Vous avez déclaré à Le Monde : « Je considère les concerts non pas comme un décalque de mes enregistrements, mais comme une autre manière de présenter mes chansons » Qu’est-ce que cela représente pour vous de monter sur scène ?
Pour moi, monter sur scène est l’occasion d’un voyage plus intime dans le sentiment et dans les chansons. Si les disques se permettent des arrangements complexes et des artifices, j’aime sur scène l’épure : il s’agit de tenir le public sur un fil et de le faire voyager dans l’intimité du verbe, où la voix est entendue très fort. L’intérêt du concert, c’est justement de proposer cette autre manière de présenter les chansons. J’aime réinventer les morceaux et offrir une surprise. La scène est pour moi encore plus intime que l’enregistrement.
Ressentez-vous le trac avant un concert ?
Je l’ai ressenti à mes tout débuts, lorsque je faisais des concerts gratuits et rapides dans les magasins de disques pour promouvoir mes premiers albums. Cette expérience m’a retiré toute appréhension. Pour moi, la scène est un moment de plaisir. Je suis plutôt excité positivement et détendu, contrairement à ceux qui tremblent ou ont la gorge nouée. C’est ce que j’aime transmettre : un moment d’intimité, de partage et de chaleur. Si j’étais stressé, cela irait à l’encontre de cet esprit.

Léonard, quels sont vos futurs projets ?
Mon plus grand projet actuel est l’écriture d’une comédie musicale, un rêve que je suis en train de concrétiser. En parallèle, je souhaite continuer les belles rencontres et les collaborations. Pour sortir du format traditionnel de l’album, j’aimerais élargir mes horizons et faire davantage de scènes à l’étranger. Mon rêve est de faire de grandes tournées et de chanter dans de nombreux pays différents. Par exemple à Rome, peut-être à la Villa Médicis. Créer pour Broadway, le cinéma ou la scène est un objectif qui m’a toujours fasciné, et sur lequel je travaille activement pour enrichir mon parcours.

On vous attend !
Parmi vos projets à venir, vous démarrez une tournée en octobre. Quelles sont les premières villes où vous vous produirez ?
Merci !
Les quatre premières villes annoncées pour octobre sont Bordeaux, Toulouse, Paris et Lyon. Je suis ravi d’aller à la rencontre des personnes dans des villes où je ne me suis jamais produit. Début d’année prochaine, des dates sont également prévues en Suisse et en Belgique. L’Italie reste bien sûr dans mes objectifs ! Pour toute autre information, le public peut me suivre sur Instagram, Facebook, Spotify ou sur mon site.
Et quels sont vos projets personnels pour l’avenir ?
Mon principal projet personnel est de maîtriser et d’apprivoiser le temps, qui est un véritable luxe. Je veux me battre pour trouver un équilibre : faire tout ce que j’ai envie en profitant de l’existence. Cela passe par voyager, penser à autre chose, et surtout lire. La littérature est une grande passion. Lire est l’une de mes activités préférées, et dès que je suis libre, je m’y consacre.

À Le Figaro vous avez répondu à une question sur vos rêves : « J’ai déjà des rêves très chargés. J’aimerais retrouver les gens disparus ». Si vous aviez une baguette magique et que vous pouviez faire revenir une personne qui n’est plus là, qui choisiriez-vous ?
Je choisirais sans doute de faire revenir un ami proche, artiste, qui est parti brutalement il y a 15 ans. Son souvenir et notre complicité m’ont beaucoup inspiré et continuent de m’accompagner. Son regard et ses goûts m’ont énormément appris.
Une autre rencontre marquante a été avec le couturier Hervé Léger. Nous étions devenus très proches. Il venait de réaliser son rêve avec moi, celui d’enregistrer un disque : Blue Sapphire, sorti en 2017. Sa mort subite, après seulement quelques années de notre connaissance, m’a causé une peine immense, car notre lien artistique et personnel était en train de devenir plus fort.
Si l’un d’eux pouvait revenir, même pour 10 minutes, ce serait pour les revoir, sans avoir forcément besoin de parler, mais juste pour ce moment de retrouvailles.

Merci pour ce partage si personnel !
Vous avez commencé votre carrière très jeune. Quel conseil donnerait le Léonard Lasry d’aujourd’hui au Léonard de 24 ans ?
Le Léonard d’aujourd’hui ne donnerait pas de conseils, mais dirait au Léonard d’hier de faire exactement comme il a fait, c’est-à-dire suivre son instinct. Malgré l’évolution constante, puisque je ne suis plus le même qu’il y a 3 ans, et encore moins qu’il y a 19 ans, il y a un fil rouge qui me relie à mes débuts. Je suis un autre tout en étant le même ; je vois mon parcours comme un prolongement continu. Ma voix a gagné en chaleur et en fluidité, mais je suis assez satisfait de n’avoir rien à renier de mes premières chansons. J’ai fait les choses en suivant mes idées jusqu’au bout.

Vous avez mentionné avoir la chance d’être toujours libre dans l’expression de vos passions. Qu’est-ce que cela signifie concrètement ? Selon vous, quelle est la définition de la liberté, à la fois dans votre métier et dans la vie en général ?
La liberté, c’est d’abord de créer un système qui me permette de réaliser mes projets comme je l’entends. Concrètement, c’est ne pas avoir quelqu’un qui me dise « Non » pour le choix d’une chanson, d’un instrument, d’une pochette ou d’un clip. Bien que je m’entoure de personnes talentueuses, la liberté consiste à écouter les conseils tout en étant capable de faire ce que l’on veut vraiment. J’ai vu trop d’artistes faire des concessions, être déçus du résultat et malheureux de ne pas avoir suivi leur intuition. Ma marque de fabrique, c’est de faire comme je le sens, car c’est ainsi que je peux rester dans une vérité et une sincérité. Si je faisais autrement, ce ne serait pas vrai, et cela m’est impensable.

Quelle est la bande originale de votre vie à ce jour ?
Pratiquement toute ma vie d’adulte s’est écrite en chansons. Tout ce que j’ai composé pour moi-même et pour les autres forme un journal intime sonore. En dehors de ma propre musique, ma bande originale inclut Cesária Évora et Julien Clerc ou Paul McCartney. Si je devais choisir deux titres personnels qui me définissent le plus, ce serait L’éternel savoir vivre, que je chante à chaque concert, et Avant de me faire oublier.
Votre œuvre explore beaucoup les émotions et les passions. Quelle place l’amour occupe-t-il dans votre vie ?
L’amour a une place très importante dans ma vie. D’abord, parce qu’il m’inspire énormément, mais aussi parce qu’il enrichit l’existence, que l’on soit en couple ou non. C’est un puissant vecteur d’expression, car les variations de sentiments et les bouleversements qu’une histoire d’amour apporte fournissent la matière pour raconter énormément de choses. Je suis porté sur ce sujet, mais je crois au destin : on ne choisit pas l’amour, il nous tombe dessus. Je ne crois pas qu’on le cherche, je crois qu’il vous trouve. Si c’est destiné, une histoire d’amour arrive, et il faut la vivre.
Êtes-vous amoureux actuellement ?
Oui (il rit, N.d.R.).

Souhaitez-vous ajouter quelque chose ?
Une belle histoire d’amour apporte une énergie fondamentale pour créer. Être porté par l’amour rend la vie plus belle, plus douce, et cela donne des ailes pour la création et les idées. Une partie de soi étant apaisée, cela permet de bien faire les choses. Je sais que certains artistes sont très productifs quand ils sont malheureux, mais personnellement, le bonheur amoureux me réussit plutôt bien.
Félicitations alors !
Merci beaucoup !

Nous remercions Léonard Lasry pour la générosité et la profondeur avec lesquelles il a partagé son parcours artistique et humain. Sa musique, empreinte d’élégance et de sensibilité, est un dialogue constant entre passé et présent, un acte de grâce qui traverse les genres sans jamais perdre son authenticité. Son œuvre démontre que l’art, vécu avec liberté et vision, peut unir la beauté et la vérité du sentiment humain.
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