Vaticano fu vicino a investire 250 milioni in estrazioni petrolifere 

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L’operazione risale ai primi tempi del pontificato di Francesco. L’affare tramontò solo perché non vi erano abbastanza garanzie a livello finanziario

Fabrizio Tirabassi, ex funzionario d’Ufficio della Santa Sede, ascoltato in interrogatorio, ha rivelato che il Vaticano fosse pronto a investire 250 milioni di euro in estrazioni petrolifere in Angola. L’affare non andò in porto solo perché mancavano garanzie finanziarie a livello bancario. 

Nella 17esima udienza del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, Tirabassi ha ammesso che il progetto, denominato “Falcon Oil”, nacque fra il 2012 e il 2013, nei primi tempi del pontificato di Francesco. 

Dalle ricostruzioni fornite, sembra che l’allora sostituto per gli Affari generali, il monsignor Angelo Becciu, abbia coinvolto il responsabile dell’Ufficio amministrati, mons. Alberto Perlasca, a valutare la proposta di un imprenditore angolano. 

L’affare riguardava l’investimento di un’ingente somma di denaro, circa 250 milioni di euro, nelle estrazioni petrolifere in Angola. L’offerta era talmente allettante che, secondo Tirabassi, i vertici della Santa Sede si rivolsero anche a un consulente dell’Eni per la valutazione della questione.

L’Ente nazionale idrocarburi, infatti, era la compagnia petrolifera italiana proprietaria della piattaforma delle estrazioni e avrebbe dovuto mettere a disposizione le proprie risorse, in collaborazione con la Sonagol, società angolana. 

Il Vaticano proponeva di acquisire il 5% delle azioni, grazie alla gestione del finanziere Raffaele Mincione, anch’egli imputato nel processo, al quale venne affidato un incarico esplorativo. 

Lo stop delle operazioni

L’affare si fermò quando, nel rendiconto finale elaborato a distanza di un anno, Mincione spiegò che non vi erano le garanzie sufficienti per portare avanti l’investimento. «Tra l’altro c’erano anche implicazioni di carattere geopolitico – ha spiegato Tirabassi – per cui la banca Ubs non ritenne di esporsi e rifiutò di mettere a disposizione il suo finanziamento». 

Nonostante l’idea di monsignor Perlasca di trovare un altro istituto, le operazioni vennero definitivamente chiuse per paura delle complicazioni che il progetto poteva avere. 

«C’erano vari problemi – ha continuato Tirabassi – oltre all’investimento a rischio ce n’erano di carattere ambientale e anche reputazionale, essendo in quella zona l’estrazione di petrolio dannosa per l’ambiente». 

«Si decise comunque di abbandonarlo per la mancanza di sicurezze sul piano economico e l’insufficienza delle garanzie collaterali. Se ci fossero state – ha concluso Tirabassi – il progetto sarebbe stato portato alla firma del Santo Padre». 

Tramontato l’affare in Angola, gli investimenti della Santa Sede si direzionarono verso la creazione di un fondo finanziario in Lussemburgo, l’Athens Commodities Fund, che poi fu utilizzato per l’acquisizione del palazzo londinese di Sloane Avenue.

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