Emergono nuovi particolari dopo i 34 arresti tra Lazio e Calabria: «I vertici si incontravano solo a matrimoni e funerali»
«Siamo una carovana per fare la guerra». Ѐ uno dei passaggi che emerge dalle intercettazioni telefoniche utilizzate dagli inquirenti nell’ambito dell’operazione “Propaggine“, che ha portato, all’alba di martedì, all’arresto di 34 persone tra Lazio e Calabria, di cui 29 in carcere e cinque ai domiciliari.
Le accuse
Per gli inquirenti, gli arrestati sono responsabili a vario titolo di associazione mafiosa, scambio elettorale politico-mafioso, favoreggiamento commesso al fine di agevolare l’attività del sodalizio mafioso e detenzione e vendita di armi comuni da sparo ed armi da guerra aggravate.
Le indagini hanno messo in evidenza che, secondo una strategia ben specifica, i due capi del “locale” di ‘ndrangheta romani limitavano al minimo gli incontri di persona con i vertici calabresi, facendoli coincidere con eventi particolari, quali matrimoni o funerali, in occasione dei quali si sono svolti incontri fugaci ma risolutivi. Nei casi di estrema urgenza, poi, gli incontri sono stati concordati mediante l’intermediazione di messaggeri.
Alcuni dei destinatari della misura cautelare sono stati già condannati per l’appartenenza alla cosca Alvaro con sentenze passate in giudicato. In una delle intercettazioni agli atti dell’inchiesta, uno dei boss, parlando con uno dei suoi, afferma: «Siamo una carovana per fare la guerra».
Società sequestrate
Le indagini sono state portate avanti – e proseguono anche in queste ore – dalla Direzione Investigativa Antimafia, con il supporto della rete @ON finanziata dall’Unione Europea. A portare avanti il lavoro inquirente, i procuratori aggiunti Michele Prestipino, Ilaria Calò e il pm Giovanni Musarò, i quali hanno disposto anche il sequestro di 24 società e attività, tra cui bar, ristoranti e pescherie nell’area nord della Capitale, in particolare nel quartiere Primavalle.
Secondo chi indaga il gruppo riciclava fiumi di fondi neri provenienti dalle attività illegali delle cosche ed era diventato un punto di riferimento per la criminalità calabrese.