Se nelle Pale di San Martino, il gruppo montuoso più esteso delle Dolomiti situato tra il Trentino e la provincia di Belluno, i boschi di abete rosso colorano tutto di verde scuro, il panorama cambia colore se si sposta lo sguardo nella celebre foresta di Paneveggio. Qui il paesaggio assume il colore della ruggine: sono abeti morenti, senza aghi e sono destinati a cadere. Non li troviamo solo in questa foresta, ma anche lungo le Alpi centrali e orientali. E responsabile di ciò è un piccolissimo essere, il bostrico, o meglio, l’ips typographus che fa parte della famiglia dei coleotteri.
Alpi, il bostrico
Se nel 2018 la tempesta extratropicale Vaia buttò giù 40mila ettari di bosco, soprattutto gli abeti rossi che sono le piante più diffuse nella zona, questo animaletto di 5 millimetri sta provocando ancora più danni: pare che fino al 2023 avesse mangiato 34mila ettari di peccete, quindi 7 milioni di metri cubi di legname, che corrispondono a 224 milioni di euro di perdite. Ma l’epidemia di bostrico non si sta esaurendo, infatti per l’entomologo e professore dell’Università di Padova, Massimo Faccoli, “la guerra contro questo insetto è persa. Nel giro di qualche decina d’anni la maggior parte dei nostri boschi di abete rosso, sotto i mille metri di quota, è destinata a scomparire“.
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Questo animaletto è autoctono della zona, quindi non viene da fuori. Non è cattivo, ma mangia solo gli abeti rossi. E ha una sua utilità perché consuma gli alberi già malati e li mette a diposizione di altri insetti, facendo così rinnovare i boschi. Il problema è quando si trasforma da endemico a epidemico.
“Dopo Vaia, le popolazioni di bostrico sono cresciute in modo esponenziale – spiega Faccoli – Prima hanno attaccato gli alberi abbattuti dalla tempesta, poi quelli in piedi, già indeboliti. Le infestazioni in genere presentano una ciclicità, che arriva a un culmine a cui segue un calo progressivo e fisiologico, fino a un rientro naturale delle infestazioni, anche perché esistono popolazioni di nemici naturali del bostrico che, sebbene con ritardo, crescono assieme alla loro preda riducendone i contingenti. Tutto ciò si risolve in una sorta di ciclo nel giro di quattro-cinque anni“.
A meno che non subentrino fattori di indebolimento delle piante. “Ed è esattamente ciò a cui stiamo assistendo. Nel 2024 ci aspettavamo una progressiva diminuzione delle infestazioni. Cosa che, invece, non si è verificata a causa della siccità del 2022 e delle altissime temperature del 2023. Tutti fattori che rendono l’abete rosso, pianta nordica tipica di climi freschi e umidi, più fragile e suscettibile agli attacchi da bostrico”.
Il cambiamento climatico
Quindi è anche a causa del cambiamento climatico, che rende sempre più deboli gli abeti rossi, che l’animale tende sempre di più ad attaccarli. “Maggiore è la temperatura in primavera – dice Faccoli – e prima il nostro coleottero inizia a volare. Maggiore è la temperatura in inverno e minore è la sua mortalità. Fino a pochi anni fa, per esempio, il bostrico era in grado di produrre due generazioni sotto la quota dei 1.400 metri e una sola al di sopra di tale linea. Ora sotto i mille metri avvia comunemente una terza generazione, aumentando in maniera esponenziale i danni che arreca”.
Quindi la tempesta Vaia, che è conseguenza dei cambiamenti climatici, ha portato il bostrico a operare su larga scala, mentre la siccità e le alte temperature ne garantiscono la proliferazione.
Rimedi al bostrico
Unico rimedio è la prevenzione, ovvero superare la monocoltura dell’abete rosso. Il dottore forestale e divulgatore scientifico Luigi Torreggiani dichiara: “Si fa presto anche a dire ‘superiamo la monocoltura’. Molto più difficile è farlo realmente. La fragilità dei boschi monospecifici e coetanei di abete rosso è evidente in Italia da decenni, da ben prima della terribile notte di Vaia”.
“I gestori forestali italiani hanno già intrapreso con lungimiranza, dalla seconda metà del Novecento, una strada diversa, inevitabilmente lenta, come lo sono le dinamiche evolutive di una foresta. Oggi occorre iniziare a guidare il futuro dei boschi alpini con ancora più forza e coraggio, attraverso nuove sensibilità, necessità e idee, per traghettarli verso forme più stabili e resilienti, ma ancora capaci di generare servizi ecosistemici ed economia”.
Per il professor Faccoli nel lungo periodo si potrà fare pochissimo per le peccete, soprattutto quelle sotto i 1.200 metri di altitudine: “Col tempo la frequenza e l’intensità di eventi climatici estremi, siccità e bolle di calore continueranno ad aumentare. E i boschi di abete rosso di bassa quota, spesso abbandonati o mal gestiti, sono destinati a scomparire. Potrà essere un’opportunità? Dal mio punto di vista sì, perché abbiamo la possibilità di andare verso boschi che meglio si adattano alle mutate condizioni climatiche e che sostituiranno formazioni che non hanno più futuro”.
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