Immobilizzato da 18 anni, il46enne di Fermignano lancia un appello affinché gli sia concessa l’eutanasia
«Gentile Stato italiano, da 18 anni sono ridotto così. Ogni giorno la mia condizione diventa sempre più insostenibile. Aiutami a morire». Le parole di Fabio Ridolfi, uomo di 46 anni di Fermignano, in provincia di Pesaro Urbino, appaiono disperate.
Fabio è rimasto immobilizzato a causa di una tetraparesi da rottura dell’arteria basilare. Gli unici movimenti che ancora riesce a compiere sono quelli degli occhi, con i quali comunica grazie a un puntatore oculare.
L’appello di Fabio è stato raccolto dall’Associazione Coscioni, che lo ha accompagnato di fronte all’Azienda sanitaria unica regionale delle Marche. L’Asur ha poi attivato tutte le verifiche del caso, previste dalla sentenza della Corte Costituzionale dopo il caso Cappato/Dj Fabo.
Fabio è stato sottoposto a tutte le visite mediche necessarie lo scorso 15 marzo, ma come comunica l’Associazione Coscioni «ancora non è arrivato nessun parere, né sulle sue condizioni né sulle modalità per poter procedere con suicidio medicalmente assistito».
Fabio è il terzo italiano a chiedere l’eutanasia, dopo Antonio e Marco, nomi di fantasia di due tetraplegigi che hanno preferito la strada dell’anonimato per combattere la loro ultima battaglia. A differenza degli altri due, Fabio ha preferito metterci la faccia, pubblicando un video in cui diffonde il suo appello proprio tramite un messaggio con il suo puntatore oculare.
«Fabio chiede di porre fine alle sue sofferenze in modo indolore, con le modalità più veloci e rispettose della sua dignità. È un suo diritto, sulla base della sentenza della Corte costituzionale – commentano Filomena Gallo e Marco Cappato, segretario nazionale e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni – Ancora una volta, il ritardo dell’Asur nel rispondere alla sua richiesta, in violazione degli obblighi di legge, comporta sofferenze che per Fabio sono da anni insopportabili».
L’eutanasia in Italia: che fine ha fatto il referendum?
Nell’estate 2021 una grande campagna di raccolte firme era stata movimentata per la richiesta di un referendum per rendere legale l’eutanasia.
Con più di mille stand nelle maggiori piazze e comuni italiani e la possibilità di utilizzare la firma digitale, la mobilitazione per la causa ha permesso di raggiungere in poche settimane più di 1 milione e 200mila sottoscrizioni, depositate poi in Cassazione. Mai la proposta di un referendum aveva raggiunto così tante firme in un arco di tempo breve.
Lo scorso febbraio, la Corte costituzionale ha posto un freno all’avanzamento del referendum, giudicando la richiesta inammissibile poiché «non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana», come riportato in una nota.
La decisione ha sollevato numerose reazioni e polemiche. «Questa è una brutta notizia per coloro che subiscono e dovranno subire ancora più a lungo. Una brutta notizia per la democrazia – ha commentato Marco Cappato – Proseguiremo con altri strumenti, abbiamo altri strumenti. Andremo avanti con disobbedienza civile, faremo ricorsi».
Diverso il parere di Mario Adinolfi, l’ultraconservatore del Popolo della Famiglia, che su Twitter ha esultato: «La Consulta ha respinto il referendum sull’eutanasia. Siamo lieti di aver viste riconosciute le nostre ragioni, la vita nell’ordinamento italiano è bene indisponibile».
Cosa prevedeva il referendum e quale è l’ordinamento italiano
L’obiettivo principale del referendum promosso dall’Associazione Coscioni era legittimare il suicidio assistito nelle forme previste dalla legge sul consenso informato e sul testamento biologico. L’eutanasia era concessa al paziente gravemente affetto da deficit non più recuperabili, dopo un’attenta valutazione medica e psichiatrica da parte della Asl di competenza.
Con il respingimento della richiesta di referendum, l’Italia continua a vietare le forme di suicidio assistito, sia dirette – quando è il medico a somministrare il farmaco eutanasico – sia indirette – in cui il soggetto prepara il farmaco per assumerlo in autonomia. Rimangono in vigore, quindi, i capi 579 e 580 del Codice penale.
Le forme di eutanasia passiva, invece, che prevedono l’astensione dall’assistenza al malato, sono già concesse e considerate penalmente lecite solamente nel caso in cui l’interruzione delle cure contribuisce a evitare il cosiddetto “accanimento terapeutico”.