“Un uomo delle istituzioni viene colpito quando è diventato troppo pericoloso, ma si può uccidere perché è isolato”.
Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva descritto così la sua condizione: minacciato dalla mafia, avvolto da ostilità diffuse, lasciato senza i poteri che aveva conquistato a Palermo, dove sarebbe stato ucciso dalla mafia, insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Era il 3 settembre di 41 anni fa.
La sua battaglia contro la mafia era cominciata a Corleone: come giovane ufficiale dei carabinieri e proseguì a Palermo tra gli anni ’60-‘70, per poi riprendere il 30 aprile 1982. Pio La Torre era appena stato ucciso e Dalla Chiesa aveva dovuto accorciare i tempi e assumere l’incarico di superprefetto.
Colpire la struttura militare di Cosa nostra e di spezzare il sistema di corruzione tra mafia e politica, questo era il progetto di Dalla Chiesa. Ma quando fu ucciso, quei poteri promessi non gli erano stati ancora conferiti – con la moglie Emmanuela Setti Carraro e il suo collaboratore Domenico Russo. Sin dall’annuncio della nomina, Cosa nostra preparava l’attacco.
“Quando in tv ho sentito che era stato promosso prefetto per distruggere la mafia ho detto: prepariamoci, mettiamo tutti i ferramenti a posto, tutte le cose pronte per dargli il benvenuto: qua gli facciamo il culo a cappello di prete“, raccontava Totò Riina al capomafia pugliese Alberto Lorusso in una conversazione intercettata in carcere.
Nell’assassinio c’era una “causale non direttamente ascrivibile alla mafia“, almeno di questo era pienamente convinto Pietro Grasso procuratore nazionale antimafia, che si chiese se fosse vero che “tutta la verità è stata accertata, che tutte le responsabilità sono state scoperte“. Quarant’anni dopo nessuna risposta concreta a tale dubbio, sottolineano i giudici della corte d’assise: “Si può, senza dubbio essere d’accordo con chi sostiene che persistano zone d’ombra, che riguardano sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”.
È quanto scritto nella sentenza che ha condannato all’ergastolo con la cupola Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia. L’unica cosa certa l’ha scritta una mano anonima nel luogo dell’attentato: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”.