Violenza sugli operatori sanitari: “Distrutto il legame medico-paziente” 

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In occasione della Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza sul personale, il Difforme ha intervistato medici, psicologi e operatori dell’Ares

“Una violenza ha un impatto molto forte, specialmente su un operatore socio-sanitario”; “Il legame medico-paziente viene distrutto”; “Sono stata inseguita con un coltello per nove piani di scale a Corviale, mentre mi venivano urlati i peggiori insulti”; “Sono cose che quando succedono te le porti anche a casa, ci ripensi, e ti fanno vivere male”. Queste sono state solo alcune delle dichiarazioni di medici, psicologi, operatori sanitari dell’ARES, raccolte dal Difforme oggi, 12 marzo, nella giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e sociosanitari.

I dati

Gli episodi di aggressioni sono in crescita. Nel quinquennio 2016-2020 sono stati più di 12mila i casi riportati dall’Inail come violenze, aggressioni, minacce e similari nei confronti del personale sanitario e sociosanitario. La media è di circa 2.500 episodi l’anno, ma sono sicuramente sottostimati, dato che a volte non vengono denunciati.

Nelle Asl del Lazio, secondo uno studio, sono riportati tassi di incidenza annua attorno al 10% per la violenza fisica e superiore al 30% per quella verbale, rispetto al totale degli operatori in servizio. Infermieri, personale sociosanitario e tecnico 118 sono le figure più esposte rispetto ad altre categorie di lavoratori, tutti i giorni a contatto diretto con il paziente e con il suo nucleo familiare.

Le testimonianze di medici e operatori tecnici ARES

“Lavoro in Ares da circa otto anni e ho collezionato un bel po’ di aggressioni. Mi ricordo di quando sono stata minacciata con un coltello a Corviale. Questo spiacevole episodio successe perché mi rifiutai di constatare il decesso di un ragazzo giovane, ormai morto da tempo, quasi in rigor mortis. Il fratello, dopo avergli spiegato la situazione, andò su tutte le furie e mi rincorse col coltello per tutti i 9 piani di scale, urlandomi dietro epiteti che non sto qui neanche a ripetere”. E’ il racconto di Eleonora Degli Effetti, medico di emergenza 118 a Roma.

“Ciò che è cambiato completamente – spiega Degli Effetti – è l’opinione che i cittadini hanno dell’operatore sanitario. È vero, ci sono difficoltà di natura pratica e organizzativa ma c’è proprio un problema di comprensione da parte dei pazienti che, molto spesso, non capiscono che cos’è realmente il servizio del 118. Non è un taxi, il paziente non può scegliere in quale ospedale andare, o avanzare altre pretese che vanno contro il regolamento che noi dobbiamo seguire. Il problema maggiore è che a livello sociale c’è un’erronea attribuzione di valore al servizio che deve essere ricordato come di emergenza”.

“Qualcuno deve spiegare – conclude la dottoressa Degli Effetti – alla popolazione a cosa serve il 118. In altre regioni non stanno messi così male e ce l’hanno molto più chiaro, anche in provincia.  Roma è diventata una follia, chiamano anche se hanno un’unghia incarnita”.

La testimonianza del soccorritore 

Un’altra testimonianza arriva da Ardea, da parte dell’autista soccorritore 118 Stefano Di Nino, anch’egli vittima di violenza sul posto di lavoro.

“Ho subito parecchie aggressioni, sia verbali che non. Molto spesso i cittadini pensano che siamo come in quei film americani, dove chiamano, passano pochissimi minuti e arrivano gli eroi che con estrema facilità risolvono la situazione. Ovviamente non è così, questa è la realtà. Quando andiamo a fare un soccorso siamo generalmente 2 o 3 sull’ambulanza, quindi, ad esempio, se andiamo in una casa, con all’interno un nucleo familiare composto da 5 persone, magari in una zona pericolosa, siamo sicuramente a rischio”.  Inoltre, continua a spiegare Di Nino: “Ti prendono a pugni la macchina o gli specchietti, durante i soccorsi. Sono tanti i conducenti che ci inveiscono contro. Capisco i disagi, i problemi, la situazione stressante, ma non riesco a capire il perché ci debbano tagliare la strada, sorpassare pericolosamente e mandarci a quel paese mentre stiamo lavorando”.

“Più che l’aggressione fisica – ci racconta Di Nino – sono i risvolti psicologici a essere pesanti e duraturi. È difficile lavorare bene in questo modo. Io guido l’ambulanza, se sono stressato e ho appena avuto uno scontro verbale o fisico questo potrebbe inficiare la mia concentrazione e il mio umore. Le aggressioni non fanno bene all’operatore perché uno cerca di far del bene e poi alla fine riceve solo del male”.

La psicologa dell’ARES

Per approfondire il tema e in particolar modo i risvolti psicologici, abbiamo chiesto il parere della dottoressa Alessandra Ceracchi, dirigente Uos Psicologia dell’Ares.

“Una violenza è naturalmente una situazione che ha un impatto emotivo molto forte su qualunque persona, ma quando avviene nei confronti del personale sanitario ha una caratteristica differente. Per un medico, infermiere od operatore tecnico è più pesante subire un’aggressione sotto il profilo psicologico. Per lavoro assistiamo le persone e quando la relazione di aiuto viene spezzata bruscamente da una violenza, verbale o fisica, viene distrutto il legame “medico-paziente” e si crea una situazione di sorpresa da parte di chi viene assalito, visto che è lì per aiutare chi ha chiamato per essere soccorso”.

Secondo la dottoressa sarebbe necessario portare avanti una politica di educazione sanitaria sulla popolazione, per provare a ridurre le violenze. “La prevenzione dovrebbe essere fatta sulle persone, una campagna di educazione al corretto uso e al rispetto del servizio dell’Ares 118. Molte tensioni nascono dall’ignoranza, da una cattiva o scarsa informazione tra istituzioni e cittadini. Io ho cominciato a lavorare su questo tema nel 2008 mentre la raccomandazione ministeriale che invitava le aziende a occuparsene era del novembre del 2007. Il fenomeno 15 anni fa non era così diffuso, sembrava inizialmente molto circoscritto a determinate situazioni, ambienti o magari tipologie di pazienti. Invece, negli anni, è diventato un fenomeno sempre più importante”.

“Oggi è la giornata nazionale, è vero, ma noi siamo impegnati 365 giorni l’anno su questo tema. Dal 2010 abbiamo iniziato i corsi di formazione per il personale, ogni anno scriviamo delle relazioni su questo fenomeno, abbiamo un sistema di segnalazione interno, abbiamo le valutazioni del nostro risk manager, facciamo degli audit. Insomma, si fa tutto ciò che è possibile fare, ovviamente non è semplice ma noi ci mettiamo tanto impegno”, conclude la dottoressa Ceracchi.  

Uno sguardo nazionale

È intervenuto, ampliando il discorso a livello nazionale, anche Mauro Marziali, medico di emergenza urgenza toscano e segretario Fimeuc, Federazione Italiana Medicina Emergenza Urgenza e Catastrofi. “Sicuramente c’è un grosso disagio a livello nazionale. L’emergenza-urgenza, come le statistiche ci insegnano, è l’area del sistema sanitario nazionale dove più si concentrano questi fenomeni di violenza, sia fisica che verbale. In questo settore, i professionisti sono quelli più esposti a un enorme stress, che in molti casi diventa cronico, patologico. L’Inail questo fenomeno negli ultimi anni lo conosce molto bene”.

“Qualcosa però si sta muovendo”, sottolinea positivamente Maziali. “Un esempio è la legge 113 del 2020, un piccolo passo in avanti di sensibilizzazione nei confronti della tutela dei lavoratori sanitari e sociosanitari. So che ci sono dei tentativi a livello regionale e a livello aziendale di migliorare e applicare questi atti di indirizzo della legge con fatti concreti”.

“Sono contento che il ministero della Salute ha istituito la giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e sociosanitari – conclude il dottor Marziali – ma spero che non sia solo una giornata per festeggiare o ricordare ma che comporti una sensibilizzazione concreta sul tema e impegni da parte delle istituzioni per investire nella sanità e, nello specifico, nel settore di emergenza urgenza”.

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